Vassilis Tsabropoulos, un’anima divisa in due

Michele Coralli
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Se le regole e l’educazione tradizionale sono fondamentali nella formazione dell’ateniese Vassilis Tsabropoulos (classe 1966), la necessità di offrire una maggiore libertà espressiva si fa sentire in un pianista che è anche performer di musica improvvisata e compositore. Tra le sue collaborazioni il recente trio con Arild Andersen (Jan Garbarek Trio) e John Marshall (ex-Nucleus ed ex-Sof Machine). Tsabropoulos ha anche scritto lavori per violino, quartetto d’archi, orchestra e, naturalmente, pianoforte (basti ricordare i Six preludes dedicati al maestro Vladimir Ashkenazy). Nel 2002 il pianista greco ha tenuto in Italia una serie di recital di sue composizioni semi-improvvisate.

L’anno scorso ho visto un tuo concerto a Monza. Suonavi con il tuo trio, un set abbastanza diverso da quello di questa sera. Se non altro per il fatto che lì eravate amplificati, mentre qui suoni in una sala che non richiede alcuna amplificazione. Come cambia il tuo stato d’animo tra una situazione all’altra?

«Devo dire che a volte non è affatto facile. Personalmente penso di essere in grado di lavorare con una mentalità che riesce a dividersi in due. Naturalmente non è molto semplice trasformare te stesso nel duplice ruolo di esecutore classico e jazz. È per questo motivo che ho deciso di dedicarmi in certi periodi della mia vita alla classica e in altri al jazz. Quando suono da solo in un recital come in questo caso è più facile concentrarmi unicamente sulla musica. La mia tecnica e il mio suono derivano al 100% da un tipo di formazione classica. Ma la cosa più importante è trovare la migliore connessione possibile con l’audience. La musica è un linguaggio e individuare le possibili relazioni con chi mi ascolta è il mio obiettivo principale. Se suono musica classica cerco di estrapolare dal cuore e dalla mente del compositore il suo spirito per porlo alla mia audience. Se suono musica improvvisata provo a produrre musica senza mediazioni e anche in questo caso la mia relazione principale rimane quella con il pubblico. Spesso improvviso a partire da qualche capolavoro classico e il sforzo è in questo caso volto non a distruggere o a turbare l’idea iniziale, ma al contrario a produrre qualcosa di nuovo e inedito».

Non si tratta quindi di interpretazioni filologiche.

«No, assolutamente. Ma credo che la musica sia un fatto molto reale e molto semplice al tempo stesso. Non è letteratura, occorre essere semplici. Non mi piace “verbalizzare” la musica. Amo suonare per il puro piacere di farlo, se la rendi troppo verbosa non è più musica, è letteratura. Non amo nemmeno quelle analisi approfondite da parte di alcuni musicologi. Il ruolo di un interprete è quello di suonare».

Ci sono interpreti e interpreti. Alcuni vogliono aderire il più possibile a quelle che sono le tracce scritte dal compositore.

«Sì, come ti ho già accennato la mia educazione è quella di un pianista classico. La mia priorità è però quella di rispettare il mio strumento. Nel jazz ci sono ottimi musicisti e meravigliosi pianisti che suonano dell’ottimo jazz, ma che non suonano così bene il pianoforte. In tutta la mia vita ho cercato di imparare a suonare il piano come strumento, solo in seguito ho scoperto che avrei potuto improvvisare. L’iter per diventare dei pianisti classici è molto duro: presuppone una grande disciplina nella tua vita e una grande mole di regole da imparare. Ma a volte, non dico sempre, questo iter intralcia il tuo modo di suonare. Se uno ha in testa troppe regole perde la propria spontaneità. Attraverso la musica improvvisata e il jazz mi sento più libero, ho la sensazione di avere un approccio più umano. Quando suoni musica classica tendi invece alla perfezione esecutiva, ma la perfezione non è una caratteristica umana».

Tanto per fare qualche esempio, quali autori sono stati più significativi per la tua ispirazione sia in ambito jazz che classico?

«Beh è una bella domanda. Credo che un compositore che è stato, non solo un genio, ma anche un faro illuminante anche per il jazz, sia Bach. Egli è stato sicuramente il più grande dei jazzisti. Nel Novecento si possono trovare molti esempi di grandi composizioni come quelli di Debussy o Ravel. Molti jazzisti hanno trovato motivi di ispirazione in questi compositori, ma anche Rachmaninov. Credo di essere stato influenzato da tantissimi compositori e non credo di poterne selezionare solo alcuni. Tutta la mia formazione classica mi ha lasciato delle influenze. All’inizio trasferivo la medesima tecnica appresa nel repertorio classico direttamente nei pezzi jazz, perché come ti ho già detto cerco di non violentare il pianoforte, ma di trattarlo come uno strumento. Cerco di sfruttare tutte le dinamiche, tutta la fraseologia e tutti i registri che mi offre. Ma al tempo stesso credo che quello che faccio non sia puramente jazz, dato che ad esempio non faccio alcun riferimento allo swing. Del resto anche parlare di jazz o di musica classica come una blocco unico credo che sia una cosa limitante. Basti pensare alla differenza che corre tra Scarlatti e Šostakovič».

Quando stavo preparando questa intervista mi è venuto in mente Glenn Gould, uno che ha sempre dimostrato una libertà davvero straordinaria nel suo approccio a molti capolavori del passato.

«Sì lui è stato un essere umano con un grande spirito, un uomo proveniente da un altro pianeta. Le sue interpretazioni sono di livello molto elevato, anche se per molti esse appaiono troppo personali poiché molte regole non vengono osservate. Se ora suoni qualcosa nello stile di Gould in un Conservatorio o in un concorso pianistico non so cosa ti possa capitare (ride, Ndr). Comunque ho una grande ammirazione per i pianisti russi come Richter o Ashkenazi, che è stato anche mio mentor. Quest’ultimo in particolare lo ammiro perché è un grande musicista che non fa mai mostra di sé mentre suona, è sempre molto modesto».

Tu sei anche un compositore. Scrivi musica non solo per pianoforte, ma anche per grossi organici orchestrali. Nella composizione da dove parti: dalla scrittura o dall’improvvisazione?

«È una procedura che mette insieme le due cose. Se ho qualche idea che mi passa per la testa la scrivo immediatamente. In altri casi estrapolo frasi o motivi mentre improvviso al piano. Non seguo una regola specifica, ma naturalmente quando scrivo per orchestra devo avere una maggior disciplina per organizzare il materiale. In tal caso le parti devono essere ordinate e sviluppate su carta. Ma anche in questo caso l’idea iniziale può partire dal pianoforte. Anche la composizione può essere ricondotta all’improvvisazione: tutti i più grandi compositori sono stati eccellenti improvvisatori, anche Mozart. In una performance se riesci a inserire l’atmosfera dell’improvvisazione, allora sei molto vicino al cuore della musica. Quando lavori mesi interi per prepararti un lavoro, può accadere di perdere la tua spontaneità».

Credo che l’improvvisazione sia qualcosa di profondamente connessa alla mente del performer. Il musicista che riesce ad aprire la sua anima riesce a creare una vera e propria onda di piena.

«Esattamente. Ti siedi al piano e nelle tue mani non c’è nulla. Ti concentri e lasci fluire le tue emozioni. Non è facile naturalmente, ma molto stimolante».

Molti improvvisatori radicali non sanno cosa suoneranno fino al momento stesso dell’improvvisazione. Succede anche a te la stessa cosa?

«A volte. Ed è una cosa molto interessante, perché è impossibile ripetere se stessi. In un concerto in cui si esegue musica improvvisata la cosa peggiore che si può fare è di cercare di suonare nello stesso modo con cui hai suonato il giorno prima. Occorre invece cancellare tutto e ripartire dall’inizio».

Nel recital di stasera suonerai per lo più tue composizioni. Hai già tutto in testa o ci possiamo aspettare delle sorprese?

«Sono stato invitato qui per eseguire della musica improvvisata, anche se avrei potuto presentare un programma classico. Quello che so adesso è che dopo dovrò suonare, nient’altro. Ho messo in programma due miei pezzi, The Calendar (A suite in three parts) e Simple Thoughts. Per terminare c’è un mio riarrangiamento di Yesterday».

Sei venuto da queste parti da solo e con il trio, con cui hai raccolto un discreto successo. Adesso quali sono i tuoi progetti futuri?

«Con il trio siamo molto vicini alla produzione del secondo disco. Ho anche una uscita con una nuova etichetta italiana, piccola ma di ottima qualità: la Eau de Musique. Sarà la registrazione di un recital di improvvisazione che ho tenuto a Cremona. In progetto ho anche un disco su Bach con le partite, le toccate e le suite. Ma naturalmente nell’immediato ho in progetto molti altri recital tra Italia, Germania, Grecia e Inghilterra».

da: “Strumenti Musicali”, n.253, maggio 2002 © altremusiche.it / Michele Coralli

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