L’opera mobile di Tristan Honsinger

L'opera mobile di Tristan Honsiger ad Angelica. Foto: Michele Coralli
Michele Coralli
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Tristan Honsinger è stato quest’anno (2002) uno dei responsabili, insieme a Massimo Simonini, della forma-contenitore della dodicesima edizione del festival di Angelica. La sua “Galleria San Francesco”, opera mobile con libretto di Ermanno Cavazzoni, determina un nuovo spazio scenico in cui si aprono finestre per le performance degli aritisti ospiti. Parliamo con lui dell’opera (definita mobile proprio per la sua dinamicità di struttura ad incastro), ma anche del suo passato di musicista legato all’ICP, alla Company di Derek Bailey e a Cecil Taylor.

Come sei arrivato ad Angelica e come è nata l’opera mobile?

«Non è nata in Italia. Avevo un amico che possedeva ad Amsterdam uno studio enorme, completamente vuoto. Così ho pensato che sarebbe stata una bella idea realizzare qualcosa in un grande spazio, senza le convenzioni del teatro. Ho pensato molto a come sfruttare questa situazione. Così quando Massimo Simonini è venuto ad Amsterdam per un convegno abbiamo parlato per la prima volta di “Galleria San Francesco”. Successivamente sono andato in America per tre mesi e poi in Italia per un concerto. Massimo allora mi ha proposto di realizzare l’idea della galleria l’anno successivo. Così è nata l’opera mobile».

È la prima volta che ti confronti con uno spettacolo di tipo narrativo?

«Ho già lavorato nell’ambito teatrale e narrativo con Aleks Kolkowski, che fa parte della compagnia dell’opera. Abbiamo fatto due messe in scena teatrali, che mi hanno aiutato a pensare a una struttura per quest’opera, anche se la “galleria” è molto più complessa».

Parlaci allora della genesi dell’opera a partire dal libretto.

«Massimo ha pensato subito a Ermanno Cavazzoni per la stesura del libretto. Io ho scritto una storia da cui lui ha ricavato i dialoghi. Il risultato ottenuto è perfetto. La storia è una favola surreale, che ha come protagonisti diversi animali e situazioni paradossali. Cavazzoni si è trovato benissimo in questo contesto».

Di cosa parla l’opera in due parole?

«Parla un tricheco, due corvi, una vecchia che si ritrovano in una biblioteca. Ognuno di loro cerca qualcosa. Ma c’è anche una storia d’amore che è un simile ad una soap opera. C’è una coppia, Carlo e Perugia, il cui ruoli vengono interpretati da diversi elementi della compagnia. La terza storia è difficile da spiegare, ma riguarda l’ambiente e l’atmosfera che c’è attorno a queste scene. Uno sfasamento di luoghi particolari: un bagno turco, una barca, lo zoo, il bosco, il bar. La storia intreccia questi luoghi».

La musica si è uniformata alle parole del libretto o era stata composta in precedenza?

«No mi sono basato sulle sue parole. Metà dell’opera è stata composta, l’altra metà si compone di strutture improvvisate sopra dei testi. Sono due concetti diversi. In tutto sono 33 scene, alcune di queste sono senza testo. Ci sono le vicende di Carlo e Perugia, poi la storia del tricheco, dei corvi e la vecchia, ma non c’è un ordine».

L’opera viene messa in scena in sei giorni diversi. Cosa succede a partire dal primo giorno?

«Scegliamo nove scene, che non sono in una sequenza narrativa. Il secondo giorno sette, poi altre nove, eccetera. Fino a completare le 33 scene, che vengono narrate tutte, ma vengono spezzate nelle sei serate».

C’è anche una struttura casuale nella scelta delle scene?

«Il gruppo di scene vengono scelte insieme. Per stasera ho una lista. Proviamo quelle che ho nella lista. Iniziamo con un pezzo e finiamo con un altro pezzo, ma in mezzo non c’è un ordine».

Una struttura quasi aleatoria.

«E’ un po’ diverso. Noi dobbiamo leggere cosa fare. Qualche volta decido io perché bisogna andare avanti, qualche volta invece ci chiediamo a che punto siamo. Anche se, all’interno delle scene, quello che si deve fare è già stato deciso».

Pensi di portare questa esperienza anche in altri contesti?

«Si può fare un concerto, ma non penso che mi piacerebbe farlo in un teatro perché perderebbe il senso. L’opera mobile è fatta per uno spazio così».

Lo spazio così ampio e l’acustica non eccelsa abbassano il livello qualitatito del suono.

«Tutti hanno problemi, anche i fonici. Non è facile realizzare spettacoli all’interno di strutture industriali come questa. Non tutti gli strumenti sono amplificati, come la batteria e i fiati, mentre pianoforte, archi e voci lo sono. Il problema nasce quando un sassofonista che è potente si avvicina troppo a un microfono, a volte la voce viene distorta perché è troppo alto il suo volume. Però ogni sera anche i problemi sono diversi».

Ho potuto notare che lo spettacolo è molto ricco di ispirazioni diverse, ci sono momenti che stilisticamente richiamano la musica improvvisata, il free jazz, i quartetti vocali rinascimentali, gli spirituals. Vuoi parlarci di questa struttura polistilistica?

«Quando lavori con dei testi ti accorgi che una storia è molto ricca di situazioni diverse. Non ho pensato di mettere un pezzo di dixieland accanto a uno di free jazz, ma di mettere in collegamento delle situazioni, dei luoghi con delle musiche, che sono sempre in relazione con il testo scritto. Ma anche molte scelte sono state il frutto di discussioni comuni. Per esempio si parlava delle albe, del passaggio dalla notte al giorno, e così sono nati quei pezzi che sembrano rinascimentali. Ma poi ci sono parti con improvvisazioni che vengono sviluppate».

Il sapore comune è rimane quello del free jazz.

«Veniamo tutti dal free jazz. Anche se non mi sento più un jazzista free. A volte suono ancora con musicisti legati ancora a quella musica. Ma non è questo che voglio fare».

Come hai iniziato a suonare e come ti sei avvicinato a quella scena?

«Ero un musicista classico che suonava nelle orchestre, ma poi mi sono stufato. Ho fatto qualche anno di esperienza nella musica da camera, che mi piaceva molto. Finalmente ho iniziato a improvvisare. Questo succedeva in Canada, dove mi ero spostato nel ‘69, provenendo dagli Stati Uniti. A Montreal ho iniziato a suonare un po’ di free jazz. Quando ho sentito i dischi che provenivano dall’Europa, ho capito che il movimento di improvvisazione europeo era più vicino a quello che volevo fare. Allora sono andato in Olanda. L’inizio è stato abbastanza duro. C’era gente molto tosta e dovevo studiare. Ho suonato per strada per sei mesi, ogni giorno. Per me è stato come una scuola di avvicinamento a un linguaggio. Dovevo creare un linguaggio e avevo molto tempo a disposizione, poiché non avevo un lavoro. Suonare per strada era molto divertente. Sono tornato ad Amsterdam e ho cominciato a suonare con tutti quei musicisti che avevo conosciuto prima: Bennink, Mengelberg, Derek Bailey, Alex Schlippenbach, Brötzmann, tutti quelli della prima generazione».

L’avanguardia europea di quel tipo aveva più connessioni con la musica colta contemporanea rispetto al free jazz, a parte casi rari come Eric Dolphy o Anthony Braxton. Come musicista classicico ti sei fatto notare subito per il tuo background?

«Soprattutto perché suonavo il violoncello, che è uno strumento che non esiste nel jazz, perché non aveva un suono adatto. E in fondo non sono mai stato un jazzista».

Hai anche fatto parte della Company di Bailey?

«Sì, suonavo per la strada a Parigi e Bailey mi ha chiamato per suonare durante una pausa di un concerto di Steve Lacy. L’avevo conosciuto prima ad Amsterdam e molti mi consigliavano di suonare con lui. Così abbiamo fatto il disco Incus come duo e dopo un anno è nata la Company. Ero con lui all’inizio. Penso che sia stata un’esperienza importante anche per gli scambi che c’erano con gli altri musicisti d’avanguardia: Braxton, Leo Smith, Evan Parker, Lol Coxhill, Steve Beresford, Han Bennink. Abbiamo fatto anche una bella torunée in Inghilterra con dieci o dodici concerti».

Conosci Ernst Rejseger?

«Sì, abbiamo suonato insieme, anche se non abbiamo fatto tante cose. E’ molto diverso da me, fa un altro tipo di musica, ha un altro approccio. Suona in modo complesso, difficile da descrivere, ma credo che sia un musicista importante per il violoncello».

E Tom Cora?

«Anche lui. Soprattutto nell’ambito del rock ibrido».

Ci sono altri violoncellisti che reputi importanti?

«Hank Roberts, così come Ahmed Abdul Malik. C’è una brava violoncellista in Canada che si chiama Peggy Lee».

A parte l’opera cosa fai oggi?

«Lavoro con ICP, con il quartetto di Tobias Delius (che comprende Delius al sax tenore, Honsinger al violoncello, Joe Williamson al basso e Han Bennink alla batteria, NdR) e ho un gruppo di archi e batteria (Jean-Jacques Avenel al basso, Aleks Kolkowski e Stefano Lunardi al violino e Louis Moholo alla batteria, NdR). Scrivo anche musica per la danza e qualche cosa per il teatro. A volte mi chiama Cecil Taylor…».

Con lui come è nata la collaborazione?

«All’Oktober Meeting ad Amsterdam a cui era stato invitato Taylor. Tra i suoi progetti c’era quello di un’orchestra estemporanea. Io facevo parte di quell’orchestra e così ci siamo conosciuti. Con lui ho lavorato in diverse circostanze e anche oggi capita di fare qualcosa insieme».

maggio 2002 © altremusiche.it / Michele Coralli

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