Network d’affari

Michele Coralli
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Li chiamano network sociali e sembra che corra l’obbligo farne parte! Ciò che attiene le scelte che spingono le persone a mettere un proprio profilo on-line non è, crediamo, motivo di grandi riflessioni. L’utilizzo di una pagina personale non è del resto nemmeno una cosa nuova, così come non lo è affatto l’idea di una comunità virtuale, ovvero un insieme di persone che scambia parole, idee ed emozioni attraverso la mediazione di codici digitali. L’idea stessa di Internet è (o dovrebbe essere) quella di un gigantesco “social network” che potremmo chiamare meno retoricamente “razza umana moderna”. Ma si sa, di cose non se ne inventano tante e se ne riciclano un’infinità. Soprattutto di idee (più che di materiali). E il fine rimane ovviamente quello di rivenderle e per farlo si deve far credere che quello che si propone è assolutamente nuovo e irrinunciabile.

Quando il singolo si inserisce in qualche network digitalizza parte della sua esistenza, rende noti i suoi contatti con i mondo, manifesta in tassonomie le sue passioni, pubblica, in altre parole, quelle abitudini che costose ricerche di mercato possono mettere in evidenza soltanto attraverso noiose e costose interviste. Invece il social network si autoalimenta di informazioni che vengono immesse in modo assolutamente volontario e consapevole. L’utente viene spinto a dare un ritratto di sé per rendere più efficace l’interazione sociale con gli altri. Aumenta in questo modo l’accuratezza con cui si scrivono i dettagli che riguardano la propria esistenza. Si parla ovviamente di dati personali, di abitudini, di indirizzi, di numeri di telefono, foto, file audio che diventano proprietà aziendali. Certo quattro autoscatti a fronte della possibilità di ritrovare qualche vecchia conoscenza senza dover per questo passare dalle severe selezioni di qualche programma televisivo, sembra poca cosa, se non si considera che le community coinvolte ormai contano diversi milioni di aderenti, ognuno dei quali possiede una piccola scheda personale da cui un attento analista (politico o commerciale) può dedurre indicazioni utili. I database, specie se incrociabili, sono merce, tanto quanto lo sono le scarpe da ginnastica o la salsa di pomodoro. E non si spiegherebbe l’interesse da parte del più importante produttore di software del mondo nei confronti del network che oggi va per la maggiore, se non per il tornaconto economico ottenuto dal semplice sguardo attraverso lo spioncino su cosa fanno le persone.

Ma c’è anche un altro lato della medaglia che qui sembra utile sottolineare: la transizione che stanno vivendo molti mezzi di comunicazione di massa tradizionali. Internet è certamente un luogo di grandi concentrazioni di interessi industriali. Fallita sostanzialmente la rivoluzione dell’e-commerce, che sembrava inizialmente destinata a cambiare totalmente le nostre abitudini di consumo, si affaccia ora l’idea che forse la migliore merce vendibile on-line non è tanto la verdura (“clicca il pomodoro”), bensì “i contenuti”, qualunque essi siano. Attraverso di essi si punta a costruire la base per nuovi grandi imperi economici. Se un tempo i “portali” erano luoghi di concentrazione di informazioni, tutto sommato “autorevoli” – ovvero firmate, in qualche modo garantite – oggi si punta in prima battuta alla diffusione del contenitore (la piattaforma del network) che poi viene riempita dagli utenti: una scatola vuota in cui mettere i nostri ricordi. In questo modo la mole impressionante di dati, che quotidianamente gli appartenenti al network immettono nel server dell’azienda proprietaria, viene legalmente posseduta dall’azienda stessa secondo prospettive ancora sconosciute.

Anche i giornali tradizionali, nella loro versione on-line, posseggono ormai ampie sezioni multimedia destinate a raccogliere immagini e suoni provenienti dalla rete, che finiscono col confondere i confini tra servizi di informazione, intrattenimento, gossip e curiosità varie. Anche da questo si inizia a capire come ognuno di noi sembri possedere le potenzialità necessarie per diventare ingranaggio mediatico anche attraverso una semplice webcam. Fortuna? Democrazia dell’informazione?

Ribaltando McLuhan pensiamo ancora che debbano essere le idee a sfruttare i mezzi, a riempire i contenitori, a creare comunicazione invece del contrario.
L’impressione dell’effetto dei social network è che invece questi possano finire col trascinare con sé in un marasma di candid camera e blog convulso la poca informazione di qualità che si può ancora trovare su Internet.
E non a caso i media tradizionali (quotidiani, mensili e tv) denigrano la rete soprattutto in merito ad una supposta mancanza di autorevolezza invece garantita sulla carta per rimandare il più possibile la propria fine. L’informazione in rete, quando è semplice accozzaglia di file messi in linea senza ordine, è pura merce di riempimento (a costo zero) raccolta dai grandi contenitori (che fruttano moltissimi soldi). Mentre quando è realmente autoprodotta quella della rete è l’unica vera informazione indipendente.

Anche nello specifico culturale non ci sono patenti di autorevolezza che caratterizzerebbe redazioni di giornali e riviste specializzate. Nell’ambito della musica contemporanea, area di cui anche questo sito si occupa continuativamente, la realtà di internet non è meno attendibile e intrigante di quanto non sia altrove. Noi appassionati, che mettiamo gratuitamente al servizio dei frequentatori della rete materiali di vario genere, crediamo di essere un canale di informazione di qualità, l’unico in grado du fronteggiare la corsa all’occupazione della visibilità on-line da parte di network sociali, frutto di logiche affaristiche che conducono al controllo e all’omologazione.

giugno 2009 © altremusiche.it / Michele Coralli

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