Steve Lacy: “Saxophone Special + (1973-4)”

Michele Coralli
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Steve Lacy: “Saxophone Special + (1973-4)” (Emanem, 4024, 1998)

Un’importante e significativa raccolta di musica improvvisata e non, che riunisce due dischi già pubblicati da Emanem su LP, due differenti set, il primo del 1973, il secondo dell’anno successivo. Il primo comprende, oltre all’immancabile sax soprano di Lacy, la chitarra di Derek Bailey, il contrabbasso di Kent Carter, la batteria di John Stevens e i sax soprano e contralto di Steve Potts, che per tanti anni ha seguito le peregrinazioni musicali di Lacy. Tre sono i brani che si muovono attorno attorno a una polarizzazione di tipo jazzzistico, con temi, soli e fraseologie che riportano a quell’area musicale. L’impronta di Lacy però ci conduce molto lontano da quel mondo: le frasi spezzate, i nervosi e improvvisi cambi di registro, l’interazione dei moduli motivici mettono una firma inconfondibile su brani come 38 (dedicato a Coleman Hawkins), Flakes (dedicato al pittore Mark Rothko) e Revolutionary Suicide.

Il secondo set mette insieme quattro sassofonisti: Lacy, Potts, Trevor Watts (alto e soprano) ed Evan Parker (soprano, tenore e baritono), a cui si aggiungono Bailey e Michel Waisvisz al synth. Il risultato musicale è provocato da una maggiore destrutturazione della presenza tematica. La scaletta del concerto del 1974 prevedeva infatti una serie di brani “scritti” appositamente per l’occasione, comprendenti ampie sezioni libere, e brani lasciati totalmente alla libertà improvvisativa. Tra i primi Staples, con un tema che viene ricapitolato e variato nella coda, così come Dreams la cui struttura viene ampliata da un’introduzione e la cui timbrica arricchita dalla manipolazione di un giradischi (quasi impercettibile, per la verità) da parte dello stesso Lacy. Siamo vicini alla radicalità espressa da musicisti dello stesso ambito “londinese”, ma proprio per una certa attenzione alla forma e all’invenzione tematica, la musica di Lacy si stacca di gran lunga dalle altre esperienze, che, secondo un parere personale, troppo spesso soffrono di una certa chiusura claustrofobia che determina un dialogo solipsistico tra musicista e strumento, che poco tiene in considerazione l’ascoltatore.

da «the Auditorium reviews» n4, primavera 1999 © Michele Coralli

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