Giancarlo Locatelli: un clarinetto contro l’omologazione [intervista]

Foto: Antonio Ria
Michele Coralli
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Giancarlo Locatelli è un giovane insegnante di clarinetto e anche un musicista portato alla sperimentazione e all’esplorazione di campi come quello della libera improvvisazione. Si è diplomato nel 1985, ha partecipato a seminari con Gianluigi Trovesi, Steve Lacy e Mal Waldron, oltre ad avere all’attivo una svariata serie di collaborazioni con musicisti creativi di fama mondiale come lo stesso Lacy, Barre Phillips, Zeena Parkins, Carlo Actis Dato e Peter Kowald, per citarne solo alcuni.

Hai una solida preparazione classica. L’interesse per il jazz è venuto dopo il Conservatorio?

«Diciamo che come pratica quotidiana esclusiva è venuta dopo, anche perché durante gli studi classici non si ha il tempo. Devo dire però che, quando ho iniziato a studiare il clarinetto, avevo già in mente questo tipo di musica».

Pensi che chi studia clarinetto in Conservatorio senta l’esigenza di trovare altri stimoli al di fuori di quei repertori?

«Conosco molti compagni di studi che, per non aver trovato una collocazione in orchestre o in gruppi da camera, hanno perso molti stimoli e sono passati in alcuni casi al sassofono, altri hanno smesso addirittura di suonare. Questo discorso può valere per molti strumenti che non hanno una richiesta tale da poter essere assorbiti in blocco. Molti rimangono fuori. Oggi in ambiti jazzistici c’è un ritorno al clarinetto, anche per merito di musicisti come Don Byron e Michel Portal, o per il recupero delle tradizioni etniche. Anche nell’improvvisazione c’è una riscoperta di tutta la famiglia dei clarinetti: ad esempio il clarinetto basso, il contralto e il contrabbasso».

Quali sono i repertori classici e quali quelli jazzistici?

«Quello classico è molto ricco: da Mozart in avanti c’è solo da scegliere. Tanto per citarne qualcuno: le sonate di Brahms, Weber, Stravinskji, la sequenza di Berio, i pezzi di Scelsi, Lachenmann. Dal punto di vista jazzistico non esiste un vero e proprio repertorio legato allo strumento».

Qual’è allora il tuo metodo di insegnamento?

«Con i miei allievi utilizzo inizialmente materiali legati all’iter accademico. Ci sono poi una serie di metodi non strettamente legati al clarinetto, ovvero i patterns, le scale, lo studio delle questioni armoniche e delle possibilità intervallari. Nel jazz è importante lo studio del materiale armonico-melodico e della pronuncia. Non si studia solamente sui metodi (ce ne sono tanti sul sassofono e sulla fraseologia jazzistica) ma soprattutto si apprende il modo di suonare da altri musicisti attraverso l’ascolto».

Quale parte del tuo insegnamento privilegi?

«Penso che la questione fondamentale sia lo sviluppo del suono attraverso le solite note lunghe, le scale, gli arpeggi, lo studio degli armonici (che non avevo mai affrontato studiando classica), gli esercizi respiratori sullo strumento; sono cioè tutte quelle cose che accompagnano chi suona uno strumento a fiato dall’inizio alla fine della sua carriera. Occorre dire che nell’ambito classico il suono è molto più codificato, anche se poi c’è spazio per l’interpretazione. Nel jazz il suono è più personale e certe caratterizzazioni rendono inconfondibile un musicista. Quello che cerco di fare è proprio di stimolare il suono caratteristico di ogni allievo, anche attraverso la ricerca del bocchino che meglio si adatta. E’ una questione molto importante il rapporto tra apertura del bocchino e ancia utilizzata. Io, ad esempio, uso un bocchino molto aperto con ance relativamente morbide, cosa che non andrebbe bene per eseguire un repertorio classico».

Prima hai accennato ad alcuni metodi che usi. Ce ne vuoi parlare?

«Per quanto riguarda l’impostazione tecnica seguo metodi in uso nei Conservatori come Jean Jean o Gambarino, ma anche metodi che hanno altre provenienze come quello di Alfred Uhl. Per quanto riguarda il jazz le cose si complicano. I metodi di clarinetto per assimilare la pronuncia con uno studio graduale di pezzi strutturati in modo progressivo non esistono e sarebbe bello che qualcuno lo scrivesse. Si utilizzano metodi per sassofono che sono abbastanza brutti, mentre c’è un volume che raccoglie duetti di Lee Konitz troppo difficile».

L’ascolto diventa quindi molto importante.

«Importantissimo. Quando l’allievo ha risolto certi problemi e ha assimilato la pronuncia corretta, l’insegnamento può spostarsi sulle trascrizioni di assoli jazzistici. In genere faccio ascoltare a ciascun allievo i musicisti che più si avvicinano al loro modo di suonare. Poi loro scelgono i brani trascrivibili a seconda del loro livello. Per me questo è uno dei punti fondamentali, sebbene sia un aspetto abbastanza trascurato nelle scuole di jazz. È vero che ci sono moltissimi materiali trascritti e basi preregistrate, ma possono essere utili solo se usati in maniera oculata».

La trascrizione facilita un rapporto ragionato con la musica.

«Esatto, la trascrizione sviluppa le capacità di ascolto e di percezione, facilita l’assimilazione di materiale melodico e armonico direttamente sul campo, piuttosto che passando da una via puramente teorica. Ci vuole più pazienza (per trascrivere un solo ci si può mettere anche un mese), ma alla lunga può dare ottimi risultati. A partire da moduli melodici tipici, io invito a ricreare poi delle frasi. Una cosa che cerco di evitare è l’omologazione, essendo il grande pregio del jazz quello di far sviluppare un modo molto soggettivo e personale di suonare. Una grande soddisfazione è vedere i miei allievi che suonano tutti in modo diverso e personale e non riproducendo il mio modo di suonare».

da: “SCUOLAmadeus”, n.3, 1999 © altremusiche.it / Michele Coralli

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