Philip Glass: musica, terapia o celebrazione? [Teatro Lirico, Milano, 26 novembre 1997]

Foto: Marco Aureggi
Michele Coralli
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C’è tra il pubblico della musica contemporanea un assunto categorico che determina due classi distinte di persone: quelli che odiano Glass e quelli che lo amano. Qualunque estimatore della musica di oggi si deve porre o da una parte o dall’altra.

Ma, al di fuori di questo paradosso provocatorio non del tutto esagerato, è pur vero che attorno al compositore minimalista di Baltimora, si sono creati degli estremismi: sia quelli dei severi detrattori, sia quelli dei fedelissimi ammiratori. Tutto ciò genera contrapposte partigianerie, che si affrontano a suon di critiche e insulti reciproci. Per onestà deontologica (soprattutto perché non è nostra intenzione convincere nessuno) premettiamo di non far parte della categoria degli amanti di Glass, anche se riconosciamo in questo personaggio un’ importanza, soprattutto nella capacità di comunicazione della sua musica, che ben pochi altri autori hanno saputo esprimere dal Dopoguerra fino ad oggi.

Ai giorni nostri infatti si contano sulle dita di una mano i compositori viventi che riescono a riempire le sale da concerto in occasione dell’esecuzione di una loro sinfonia o di un recital per pianoforte a loro dedicato. Per questo riconosciamo a Glass una notevole capacità di giungere nel profondo degli animi, utilizzando mezzi semplici e riuscendo con essi a muovere le corde del cuore (la cui sollecitazione viene continuamente richiesta da moltitudini di persone in cerca di struggimenti).

Ma sorge un dubbio banale che determina una domanda abbastanza ovvia: perché un concerto di Glass riempe un grosso teatro, mentre La fabbrica illuminata di Nono racimola sì e no una trentina di persone in una città come Milano?

Ancora più facile sarebbe mettere in causa ragioni quali: l’esasperato desiderio di conformismo che comunque serpeggia nei foyer delle nostre sale da concerto, o l’accidia che nega ogni impegno nella fruizione musicale, o ancora la voglia di chiuderci in noi stessi con la musica come compagna, per allontanare le nostre ansie e allentare i nostri muscoli.

Ma probabilmente non sono questi i veri motivi.

Forse è proprio attraverso compositori come Glass – che provengono dall’accademia e che, dopo un prolungato giretto per il mondo a visitare le altre musiche, all’accademia ritornano – che il miracolo del concerto, così come lo intendiamo da ormai trecento anni, si rigenera. L’artista/artifex (in carne ed ossa) può nuovamente essere celebrato. Una classe torna a riunirsi attorno al proprio idolo nell’ambiente che le fa da specchio di vanità (looking-Glass?!). E i critici colti possono finalmente scrivere su qualcuno che non appartiene ancora ai Campi Elisi.

Basta assistere ad un concerto come quello del Teatro Lirico di Milano (del 26 novembre scorso) per verificare di persona come l’estasi del pubblico sia davvero palpabile in certi atteggiamenti (teste ribaltate sulle poltrone, palpebre richiuse per interminabili minuti accompagnate da un sorriso rilassato) e nei giudizi clamorosamente mitizzanti (“dopo un concerto di Glass mi sento come se fossi nessuno” o “se non ascolti Glass vuol dire che sei morto”) che tendono a legittimare il sospetto che ci si trovi di fronte ad una casta di discepoli sedotti da un magnetico messia. A lui vengono perdonati il pianismo non certo cristallino, il grigiore dei colori e perfino alcune stecche al pianoforte (forse nemmeno udite). Ma tutto questo fa parte del rito compiuto dai fedeli nella celebrazione di un mito.

da: “Auditorium reviews”, n.2, 1998 © Michele Coralli

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