Paolo Ciarchi: Suoni e rumori a teatro [intervista]

Michele Coralli
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In genere, quando si fanno delle interviste, è consuetudine iniziare la stesura del pezzo dai dati desunti dal curriculum dell’artista. Personalmente penso che alcune di queste piccole biografie siano terribilmente noiose, in special modo quelle che diventano un elenco di titoli o di premi conseguiti. Altre invece hanno il pregio di essere una specie di racconto e che a loro modo riescano ad essere perfino coinvolgenti. E’ il caso della storia di Paolo Ciarchi, musicista/rumorista che lavora in teatro da ormai molti anni. Vediamo alcune tappe importanti della sua vita. Nel 1960 lo troviamo all’interno di quei locali milanesi, in bilico tra cabaret e avanspettacolo, come il Franco Nebbia Club, assieme a Cochi Ponzoni, Renato Pozzetto, Bruno Lauzi e molti altri. Suona la chitarra nei primi recital di Jannacci con la regia di Dario Fo, che ai tempi suscitarono interessi e polemiche. Dal 1964 inizia a collaborare con il Nuovo Canzoniere Italiano, sia prendendo parte a numerosi spettacoli come Bella Ciao (regia di Crivelli), Ci ragiono e canto (regia di Fo) e Pietà l’è morta, sia partecipando alle registrazioni di numerosi dischi pubblicati con l’etichetta storica del folk revival italiano e internazionale i Dischi del Sole. Accompagna molti cantanti di quella scena musicale tra cui Ivan Della Mea, Giovanna Marini e Paolo Pietrangeli.

Nel 1968 fonda alcuni collettivi di teatro insieme a Dario Fo: prima Nuova Scena, poi La Comune, allo scopo di creare un circuito teatrale alternativo e autofinanziato. Negli anni Settanta collabora con musicisti quali Paolino Della Porta, Riccardo Luppi, Riccardo Fassi e Attilio Zanchi con i quali partecipa assieme agli Area e Il Volo alla tournée di Re Nudo. Concepisce poi alcuni progetti di sonorizzazioni di sequenze di film muti e non, presentati alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 1981. La collaborazione con molti teatri milanesi dura ormai da molti anni, avendo curato le musiche e i suoni di numerosi spettacoli tra cui Andersen (regia di Schirinzi), Il barone di Munchausen (regia di Sbragia), Babar il piccolo elefante, eseguito alla Scala e Medea (regia di Nogara), solo per citarne alcuni. Ciarchi non è solo musicista per il teatro, ma soggetto teatrale tout court, sicché è una logica conseguente allestire delle messe in scena che partono dal pretesto del seminario: Microconferenza di musicologia applicata e il Corso sull’uso della vocalità, il canto e la musicalità nella recitazione diventano spunti per dei veri e propri recital fatti di esuberanza verbale ed eclettismo musicale. Tra le ultime partecipazioni teatrali sono da ricordare Io l’erede di Eduardo De Filippo e Re Lear, per il Franco Parenti di Milano.

Paolo Ciarchi è un musicista che lavora in teatro da più di trent’anni e forse anche da questa lunga esperienza discende la sua disposizione vulcanica e incontenibile all’affabulazione, che riesce ad abbracciare con estrema disinvoltura temi quali le medicine alternative, l’Oriente, il teorema di Pitagora, i cellulari, la televisione e… il tema della nostra intervista, ovvero “la musica e il teatro”.

Musica registrata o musica dal vivo. Questo è il dilemma.

«Il problema del teatro è che non ha molti soldi, a parte i soliti sovvenzionati. La maggior parte non ha grosse disponibilità, per cui deve fare uso, il più delle volte, di musica registrata. Nessuno pensa di fare uno spettacolo senza pagare un service e un tecnico per le luci. Chissà perché invece non lo si fa sempre per i suoni, ma, tagliando le spese qua e là, si arriva sempre alla musica. Eppure questa è fondamentale: cambiando il suono cambia la lettura dell’immagine, sia essa una sequenza cinematografica oppure una scena recitata con un attore presente in carne e ossa. Il suono è come una bussola che direziona la lettura emotiva dell’immagine. Te ne accorgi in modo infallibile con le immagini fisse».

Il linguaggio musicale del teatro ha delle regole precise o è libero di improvvisare?

«Il teatro è rimasto l’ultimo baluardo del Live. Ma occorre allargare il concetto di teatro anche ad altre situazioni: anche il cantante rock fa teatro o Bernstein. C’è un teatro consapevole e uno inconsapevole. Se tu usi in modo consapevole la tua presenza, ogni gesto ha un significato. Se il grande pianista classico si mette un dito nel naso fa teatro, perché non è uno qualsiasi a farlo. Ma tornando al problema dell’esecuzione in teatro devo dire che molti registi e autori teatrali, avendo paura di essere sgridati dai critici e dal pubblico, cercano di tenere tutto sotto il loro controllo e obbligano tutti i componenti della troupe a seguire passo passo ‘la partitura’, rinunciando a se stessi. Per me questo è un paradosso in un’epoca in cui si possono fare milioni di copie di qualsiasi cosa e mandarle in giro, ad esempio tramite Internet. La vera ricchezza di qualcosa che viene eseguito dal vivo dovrebbe essere invece la sua fluidità, la sua relatività. E’ lo stesso discorso che io faccio ai miei amici jazzisti. Per me il jazz non consiste negli standard e non si può avere la paranoia del compositore e la preoccupazione di seguire pari pari quello che ha composto, perché il linguaggio del jazz è scritto sull’acqua».

Quali sono gli usi errati della musica in teatro?

«Nella maggior parte degli spettacoli la musica viene impiegata come un colla per collegare un quadretto al successivo. Siccome pochi drammaturghi hanno un arco strategico omogeneo, per la maggior parte dei casi la discontinuità tra quadri, quadretti e scenette viene camuffata con la musica».

Quale strumenti si porta dietro le quinte?

«Da un po’ di tempo mi sono fissato sugli oggetti da suonare. Non avendo mai avuto i soldi per comprare un fairlight d’oro o un computer d’argento, mi sono detto “o smetti di suonare oppure scopri che il gioco non è il giocattolo e la musica non è lo strumento”. Allora mi sono messo a suonare le scatole dei fiammiferi, i cucchiai, le bottiglie e le sedie. Se non ho niente uso la testa, il petto, la voce. Prendiamo uno come Bobby Mc Ferrin. Lui con la voce riesce a fare di tutto: la ritmica, intonando le parti del basso, i frammenti di melodia, i salti in falsetto e siccome deve anche respirare, usa il respiro come un elemento ritmico. In più, avendo le mani libere, si percuote il petto. Io invece suono il Tuttofono, come lo chiamo io, che è roba che metto insieme a seconda delle esigenze: il gong, i tubi di gomma, il cactus (che può diventare un strumento musicale), i bicchieri di cristallo, insomma tutto il mio arredamento diventa uno strumento utile in un modo o nell’altro. Mi piace usare suoni ricavati da oggetti. Infatti se in teatro, per esempio, c’è un batterista dietro le quinte che dà un colpo al piatto o un rullata, uno si prefigura il batterista che suona. Se invece si producono dei suoni con degli strumenti che non si riescono ad identificare, ci si lascia maggiormente andare all’immaginazione. Nei Promessi Sposi alla prova di Testori ho trasformato delle colonne di legno compensato in giganteschi berimbau con del semplice filo di ferro. Le percuotevo e le pizzicavo, creando un suono tellurico senza nemmeno l’uso del microfono. In quello spettacolo usavo anche una grossa campana da cui traevo dei suoni simili a una steel drum. La facevo usare anche agli attori, che battendo la campana e recitando svolgevano il doppio ruolo drammaturgico e musicale, rispettando la legge secondo cui, se si concentrano più funzioni (e di solito è una povertà che spinge a fare ciò), aumenta il coefficiente spettacolare».

Lei ha fatto anche degli esperimenti con il cinema. Ce ne vuole parlare?

«Negli anni ‘70, sempre spinti dalla povertà, abbiamo fatto degli spettacoli con musica dal vivo e proiezioni di immagini che avevamo chiamato Suite Movie, che poi abbiamo presentato anche al Festival del cinema di Venezia. Montavamo sequenze intere di 15/20 film: dalla Taverna dei sette peccati con Marlene Dietrich, che si mixava con la corsa delle bighe di Ben Hur, si passava alla scena della morte di King Kong sul grattacielo. La musica era costruita su una continua improvvisazione, molto estrema, nel senso che non sapevamo nemmeno con quali strumenti avremmo iniziato. La cosa a cui tenevamo di più era che il flusso sonoro fosse in continua trasformazione. Capitava allora che, spegnendosi una certa energia percussiva, ci si accorgeva di un campanellino che un musicista stava suonando da mezz’ora, ma che il rumore di fondo impediva di percepire. Da quello ricominciava una nuova improvvisazione».

Nel teatro si fa ancora ricerca?

«Negli anni ‘60 esperienze come quelle del Living Theatre facevano impazzire la gente perché, ad esempio, non c’era sipario. Lo spettacolo era a tutto campo, gli attori si mettevano in mezzo al pubblico. Adesso fanno tutti così e paradossalmente allestire uno spettacolo con il velluto rosso e il battitore che dà inizio alla rappresentazione come nella Commedia dell’Arte diventa oggi sorprendente».

Frequenta il teatro da spettatore?

«No, non vado più perché il teatro è diventato troppo prevedibile. Al posto di ricercare nuove strade espressive, c’è una continua celebrazione del passato: dagli autori, ai registi, alla musica, tutto riguarda il passato».

da: “SCUOLAmadeus”, n.11, 2000. © Paragon / Michele Coralli

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