I microdrammi meccanici di Lanza, Valle e mdi ensemble [Fabbrica del Vapore, 12 Ottobre 2018]

Renato Rivolta

Mauro Lanza e Andrea Valle
Systema Naturae – Ciclo in quattro parti per strumenti e dispositivi elettromeccanici: Regnum vegetabile (2014) – Regnum animale (2013) – Regnum lapideum (2016) – Fossilia (2016–2017)
Prima esecuzione italiana del ciclo completo a cura di mdi ensemble e RepertorioZero

I veneziani, io credo di conoscerli bene perché ho avuto spesso a che fare con molti di loro, per amicizia o per professione. Sono gente scaltra, veloce, dall’intelligenza vivissima e dalla fantasia accesa. Sarà perché sono mercanti da molti secoli, cosmopoliti e dotati di un uso di mondo istintivo, inscritto nel loro patrimonio genetico. E quando sono artisti, sono tutt’altro che accademici: al contrario, sono anticonformisti e inventano cose inedite e originali, piegando al loro istinto creativo qualsiasi materiale, anche quello più inaspettato. Nel loro modo di fare arte, la dimensione ludica, il giocare con gli stilemi, con i materiali della loro arte e con le cose è un carattere naturale, spontaneo. Stilate mentalmente una lista di pittori, musicisti, architetti, letterati, drammaturghi veneziani nella storia, e sarete sorpresi di constatare quanto dico.
Il compositore Mauro Lanza, veneziano trapiantato da anni un po’ a Parigi un po’ a Berlino, non fa eccezione, e a Milano ha presentato il suo Systema Naturae, frutto della collaborazione pluriennale con il – credo non veneziano, ma altrettanto proteiforme – Andrea Valle, informatico musicale, semiologo, ricercatore multimediale.

Systema Naturae è un Opus Magnum che riunisce l’intera cosmogonia messa a punto dai due nel corso del tempo, una sorta di De Rerum Natura che si basa sul singolare dialogo fra gli strumenti musicali tradizionali – trio d’archi, fiati, chitarra, pianoforte, percussioni– e una numerosissima quanto bizzarra popolazione di “dispositivi elettromeccanici” e altri umili oggetti assortiti, la cui caratteristica comune è di non essere concepiti per creare musica, ma a questo fine riciclati. Sono radiosveglie, coltelli elettrici da cucina, fischietti e canne sonore, lattine, e altre simpatiche macchinette inventate di sana pianta, la cui descrizione qui sarebbe troppo lunga, che producono tutto un catalogo neo-futurista di rumori o aggregati sonori complessi: grattugiatori, strisciatori, sibilatori, fischiatori, percuotitori e così via. Ma il riferimento ai futuristi di 100 anni fa non ci porti fuori strada: il pensiero musicale del duo Lanza/Valle non ripete banalmente la provocatoria rivendicazione della dignità musicale del “rumore”, che fu il manifesto dei Futuristi del ‘900, bensì parte da questa ormai antica intuizione (che percorre sotto traccia buona parte della creazione musicale fino ai giorni nostri, passando attraverso la nascita e lo sviluppo dell’elettroacustica e dell’informatica musicale, e giunge fino al genere “noise”) per organizzarla in una nuova e superiore sintassi nella quale i nessi semiotici sono basati su assonanze/dissonanze, analogie/differenze tra tutto un fantastico, infinito catalogo di aggregati sonori complessi prodotto ora dagli strumenti tradizionali, ora dagli automi meccanici controllati via computer, ora dalle due famiglie insieme, a produrre esiti di grande fascinazione.

Il risultato è una continua fantasmagoria musicale che – sorprendendo e divertendo – porta a un livello di integrazione superiore, di raffinata complessità e profondità, tutta la ricerca sulla natura e le possibilità espressive della materia sonora sviluppata dai pionieri della Musique Concrète, poi dagli studi di elettroacustica, poi dall’informatica musicale. Il linguaggio di Lanza/Valle mostra di aver ben messo a frutto la lezione delle ricerche all’Ircam, degli “spettrali”, di Lachenmann e della musica concreta strumentale, ma trova una sua propria voce originale in questo singolare dialogo fra gli strumentisti in carne e ossa e il popolo dei piccoli automi meccanici che li circonda e con loro conversa alla pari.  Il risultato globale è una specie di drammaturgia senza parole, costituita da una successione di brevi brani a tema, in ognuno dei quali un particolare tipo di aggregato sonoro è esplorato finemente e con lieve ironia – vengono a mente i celebri Esercizi di stile di Queneau; ogni episodio ci racconta una breve storia, che in genere si sviluppa poco alla volta in una curiosa e sghemba danza meccanica e termina poi in modo abrupto, come se qualcuno, disturbato dal chiocciare di queste macchinette che parlottano fittamente fra loro, non riuscendo a prendere sonno, decidesse di spegnere l’interruttore della corrente elettrica per farli smettere. :–) Ora, io ignoro se questa umanizzazione degli “automi musicali” sia una mia proiezione psicologica oppure una consapevole volontà degli Autori: ma é un fatto che il Mito dell’automa musicista é profondamente evocativo, e fa parte da secoli della cultura di molte civiltà, e anche, naturalmente, di quella Occidentale. 

Queste brevi drammaturgie – ispirate, secondo i loro titoli, alla descrizione sonora del regno vegetale, animale, minerale, fossile – raccontano alla mia immaginazione storielle ora tristi e solitarie, ora allegre e vivaci, ora tragicamente macabre: c’è la solitudine inconsolabile del piccolo rover Curiosity spedito tutto solo dagli umani nell’infinito deserto silenzioso del pianeta Marte, dove gli unici suoni udibili sono i cigolii e i ronzii prodotti dai suoi stessi arti meccanici e automatici; ci sono i Nibelunghi che battono le loro incudini nelle profondità del sottosuolo; c’è un esotico “gamelan” balinese contemporaneo reinventato – ancorché involontario, a detta di Mauro Lanza da me interrogato in proposito – che mi ha fatto venire in mente una sorta di “Artisanat furieux” 2.0 ripreso dal famoso Marteau Sans Maître di Boulez; c’è (e come poteva mancare in una drammaturgia che si rispetti?) una trasfigurazione fantasmagorica delle danze macabre di Hyeronimus Bosch, un sabba infernale popolato da mostri meccanici che ballano, perfidi, prendendosi gioco della caducità di noi umani; e c’è infine un Epilogo tragico, che mi ha fatto veramente battere il cuore: alla fine dell’ultimo capitolo, Fossilia, quando gli strumentisti in carne e ossa terminano di suonare e tacciono, attoniti, la popolazione delle macchinette continua un suo canto straziante, come forse un giorno succederà quando, estinta l’Umanità o trasferitasi su un altro pianeta lontano, sulla Terra rimarranno abbandonate solo le obsolete macchine, orfane di noi, e continueranno a cantare e suonare come meglio possono, goffamente, la musica che avevamo loro insegnato a fare insieme a noi. Canteranno il loro lamento meccanico per l’Eternità, nella speranza vana del nostro ritorno. O almeno, fino a quando le loro batterie si scaricheranno: un finale davvero straziante, di profonda e tragica commozione, assistendo al quale si rimane così, incerti tra il riso e il pianto. Direi quasi tarkovskiano, se non temessi di offendere la memoria di quel grande poeta e regista.
Ottimi e superpreparati, come sempre, gli strumentisti di Repertorio Zero/Mdi Ensemble, che hanno eseguito tutto il lungo e difficile ciclo di composizioni senza direttore, con il “click” in cuffia, come è ormai loro consuetudine. Festeggiamenti giustamente molto calorosi e meritatissimi da parte del folto pubblico.

ottobre 2018 © altremusiche.it

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