Uno squalo in laguna: 3 giorni in Biennale Musica [Venezia, 2018]

Parco della Musica Contemporanea Ensemble + David Moss Courtesy of La Biennale di Venezia. Foto: A. Avezzù
Michele Coralli
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Come di consueto, il veneziano Festival Internazionale di Musica Contemporanea offre un buon ventaglio di cose nuove (un Focus Contrabbasso quasi completamente caratterizzato dalla presenza di giovani compositori o la ripresa di Aliàdos del Leone d’argento Sebastian Rivas), poi tante cose meno nuove (come l’opera-tango di Astor Piazzolla Maria de Buenos Aires) e infine clamorose riscoperte. Clamorose, intendiamoci, perché tardive, come nel caso di Frank Zappa.

Il nostro piccolo focus Biennale Musica 2018 si riferisce ai primi tre giorni di performance che iniziano col botto The Yellow Shark del Parco della Musica Contemporanea Ensemble, diretto da Tonino Battista, che inaspettatamente, si ritrova il doppio bill con una seconda serata dedicata a Elliott Carter a causa della défaillance di Keith Jarrett, Leone d’oro assente per motivi di salute. Sul primo approfondiamo qualche riga sotto, mentre su Carter invece ci preme ricordare ancora una volta che, in fondo, rimane un autore abbastanza ignorato dai cartelloni della contemporanea, forse perché troppo contiguo alle avanguardie novecentesche – le cui obbligazioni sono ormai in completo ribasso (a parte qualche nome intoccabile, veneziano o ligure). Dialogues per pianoforte ed ensemble e, soprattutto, Oboe Concerto dell’americano, seppur fortemente storicizzati, tengono bene nell’esposizione di atmosfere fortemente contrastate che esaltano ritmicità e coloriture a tinte forti (qui messe brillantemente in risalto rispettivamente da Lucio Perotti al pianoforte e Fabio Bagnoli all’oboe). Si direbbero composizioni con una forte emotività, pur nel rigore formale: la lettura di PMCE sembra voler sottolineare proprio questo.

Florentin Ginot. Courtesy of La Biennale di Venezia. Foto: A. Avezzù

Tre set completamente dedicati al contrabbasso mettono invece in evidenza tre piccoli sistemi solari costruiti attorno a ciascuno dei tre interpreti Florentin Ginot, Charlotte Testu e Dario Calderone. Il primo, impreziosito da una vera e propria scenografia che lo situa, demone del contrabbasso, al centro di un altare tripartito come in una sorta di polittico sacro. La luce dal basso aumenta l’effetto scenografico esaltato dal gioco luminoso che costruisce una vera e propria maschera sul volto di Florentin. Nella moderna concezione live, comune “anche” alla musica da camera, aspetti come questo non sono affatto secondari nella fruizione da parte del pubblico. Ma anche in questo caso – come vedremo dopo a proposito di Zappa – anche per queste cose ci vuole sapienza… Per il resto un’esplorazione sonora che è comune a tutti e quattro gli autori in lizza: Rebecca Saunders, Georges Aperghis, Sebastian Rivas e Liza Lim (suggestivo l’uso della tecnica vietnamita del dan kni applicata al contrabbasso).

Charlotte Testu presenta quattro prime con Biston, Verunelli, Edler-Copes e Garnero in un set nel quale l’elettronica, a cura di Centre de Recherche Informatique et Création Musicale dell’Università di Parigi, gioca un ruolo a volte fin troppo egemonizzante, a tal punto da rendere molto simili composizioni, duole dirlo, troppo omogenee.

Ur – Due riti per contrabbasso di Giorgio Netti invece parla un linguaggio quasi atavico, nel quale l’esplorazione viene subordinata alla ricerca di espressività, appunto come in un rito che guarda all’interno del suono, per produrre lo slancio verso una dimensione altra, forse mistica, forse meditativa, forse puramente estetica. Un gesto materico che impugna lo spettro mettendolo in circolo attorno a fulcri sonori che giocano il ruolo di un OM scelsiano.

Dario Calderone. Courtesy of La Biennale di Venezia. Foto: A. Avezzù

Di tutt’altra pasta il set di Giacomo Baldelli che ha in Loo(p)cy di Luigi Manfrin il pezzo di maggior interesse (oltre ai già ben noti Vampyr! di Tristan Murail e Trash TV Trance di Romitelli): un’espansione della potenza dei suoni che parte da una chitarra elettrica molto effettata e arricchita da un uso incrociato di due loop che amplificano le potenzialità del solista fino a creare dallo strumento una macchina satura e distorta che guarda senza troppe remore al rock più prolifico di Larsen, grumi di glitch e impasti di ampi arcate psichedeliche.

Giacomo Baldelli. Courtesy of La Biennale di Venezia. Foto: A. Avezzù

Osservazioni a latere di un’esecuzione zappiana

Recuperare Zappa a 25 anni dalla sua scomparsa e a 26 dalla sua ultima apparizione sul palco della Frankfurt Alte Oper alla direzione dell’Ensemble Modern (affiancato, o per meglio dire, sostenuto nella direzione da Peter Rundel) in quello storico progetto denominato The Yellow Shark. Ebbene sì, tanto tempo è passato da quell’ultimo progetto che segnava il definitivo commiato dal mondo della musica da parte del compositore di Baltimora.

Oggi il cosiddetto “mondo accademico italiano” rende finalmente omaggio a quell’imprendibile, quando geniale mente musicale, che ha rincorso con tanto affanno le orchestre classiche al fine di ottenere la migliore esecuzione possibile di qualcuna di quelle sue numerosissime composizioni immaginate e scritte per compagini di ampie dimensioni.

Molti ascoltatori avranno in mente la collaborazione di Zappa con Pierre Boulez e l’Ensemble Intercontemporain, ma esistono casi meno noti come quello della collaborazione con gruppi sinfonici come la London Symphony Orchestra, diretta da Kent Nagano che vengono stigmatizzati dallo stesso Zappa (con la sua consueta ironia) come esempi di “imperizia britannica” o ancora altre situazioni paradossali come la causa civile avviata contro la Royal Albert Hall nel 1971 in seguito all’annullamento dell’esecuzione di 200 Motels da parte della Royal Philharmonic Orchestra a causa della presenza di testi osceni, che sono proprio quello che hanno rovinato Zappa agli occhi del mondo perbenista di molte istituzioni musicali. Insomma, il mondo accademico non ha mai visto di buon occhio la musica di Zappa: troppo sboccata nei testi e, probabilmente, troppo “scorretta” nella sua grammatica musicale.

Eppure se c’è un autore che è riuscito ad attirare l’attenzione su di sé (e sulla sua musica) da parte di un pubblico estremamente variegato (dal rockettaro al purista della contemporanea) questo è proprio Zappa. E ben inteso: sia nelle sue propaggini più spinte verso il mondo popular, sia nelle partiture più complesse.

The Yellow Shark è il progetto che corona finalmente l’ingresso – aggiungiamo anche trionfale – nel mondo distratto della contemporanea, troppo spesso (specie in passato) preoccupato di non rispettare il DOGMA dell’autore colto, in quanto proveniente da percorsi formativi rigorosi (e vale poco, a nostro parere, la distinzione in questa prospettiva, tra modernismo e post-modernismo).

Una serie di composizioni, quelle di The Yellow Shark, riunite in una sorta di suite nella quale convergono numeri che recuperano musiche del passato remoto (Uncle meat), musiche più recenti che vanno dall’intera orchestra di 26 elementi, al duo di pianoforti (Ruth is sleeping), ai quintetti di archi (Questi cazzi di piccione) e quintetti e sestetti di fiati (i diversi movimenti dell’ecologista brano da camera Times Beach), infine alle realizzazioni “umane” che prendono spunto dall’antico mondo digitale del Synclavier (come la celeberrima G-Spot Tornado). In pratica un piccolo compendio dello Zappa degli anni ‘70, ‘80 e ‘90, racchiuso in poco più di un’ora di performance, non estranea a elementi “teatrali” e coreografici.

Parco della Musica Contemporanea Ensemble + David Moss Courtesy of La Biennale di Venezia. Foto: A. Avezzù

L’esibizione veneziana del Parco della Musica Contemporanea Ensemble fatica però a entrare in sintonia con una musica che cambia bordo in continuazione, tra il serio e il faceto, tra il “facile” e il “difficile”, così come ha sempre fatto il suo autore. Al di là di alcune imperfezioni che in questo caso ben poco si tollerano – perché la musica di Zappa deve essere trattata OGGI come i repertori più sacri della storia della musica sinfonica – rimane di fondo l’impressione che da parte di certi ambienti, musica come questa debba essere trattata più come una festa, un diversivo, qualcosa di allegro su cui giocare. Ma non è così.

La musica di Zappa esige rigore prima di tutto, perfezione esecutiva ed energia. Tutto deve girare in modo impeccabile come all’interno di un Synclavier o come all’interno di quei gruppi rock che annoveravano musicisti/ste come Ruth Underwood, Terry Bozzio, Chad Wakerman, tanto per nominare tre mostri di bravura. Una volta assicurati la qualità musicale, la cura timbrica e l’affiatamento orchestrale, allora si può passare alla componente più giocosa, allo Zappa più buffo e beffardo. Non prima!

Quando invece si scelgono delle scorciatoie più immediate (l’accento ritmico, l’intensità sonora sbilanciata o l’enfasi sulla pantomima scherzosa) si corre il rischio di apparire grotteschi e impacciati – attitudine che dal mondo accademico risulta ancora più goffa. Ebbene al Teatro Goldoni abbiamo assistito a un omaggio zappiano non del tutto convincente, per quanto segni forse un possibile inizio della storia dell’interpretazione delle “altre musiche” nel tempio della vecchia avanguardia come la Biennale. È da qui che si deve ripartire, se si vuole procedere a una riepilogazione degli ultimi 60 anni dell’altra fetta musica, lasciateci dire “progressiva”, in un senso quanto più trasversale e, al tempo stesso, rigoroso possibile.

ottobre 2018 © altremusiche.it

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