Biggi Vinkeloe: improvvisazione slow-food [intervista]

Michele Coralli
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Biggi Vinkeloe, flautista e sassofonista tedesca, residente in Svezia, partecipa da diversi anni alla scena improvvisativa europea e statunitense. Ha collaborato con Barre Phillips, Georg Wolf, Peter Friis Nielsen, Peter Kowald e Peeter Uuskyla; in Italia con Giancarlo Locatelli, Fabio Martini e Filippo Monico. Lavora da anni assieme a pittori estemporanei, ballerini e performers di vario genere, cercando contatti in ambiti assai distanti tra loro, come nel caso di musicisti contemporanei dediti alla Nuova Musica come Marie Wärme ed Eva Bruun Hansen, o il bassista metal Magnus Rosén, con cui ha registrato ed eseguito performance dal vivo.

Partiamo dal tuo background. Sei partita da studi classici per muoverti verso l’improvvisazione. Come si è compiuto questo percorso?

«Mi è sempre piaciuto improvvisare, soprattutto ho sempre amato la sfida che comporta iniziare una cosa senza sapere come se ne verrà fuori. Suono da quando avevo cinque anni e da allora ho voluto diventare una musicista. Per questo ho lavorato in maniera caparbia, iniziando dalle consuete lezioni classiche sul flauto. A quindici ho incontrato due bassisti che facevano parte dell’orchestra della scuola e sono stata invitata a prenderne parte. Avevamo differenti gruppi con i quali suonavamo abbastanza frequentemente. Come poi molti altri miei coetanei ho iniziato ad andare a vedere un sacco di concerti: da quelli classici, a quelli folk, rock, metal, jazz, di musica improvvisata, almeno due o tre sere alla settimana. Poi mi sono accostata all’improvvisazione sul flauto e, quando quello strumento ha iniziato a crearmi dei problemi di ascolto, ho deciso di comprarmi un sassofono. Oggi però mi sento a mio agio sia con il flauto che con il sax».

Molti improvvisatori europei hanno come modello, da una parte i musicisti free jazz afroamericani, dall’altra certa musica classica contemporanea. Quali di queste esperienze sono più vicine alla tua?

«Apprezzo diversi generi musicali. Ancora ascolto i giganti come Charlie Parker o Coltrane, ma anche Glenn Gould, Igor Oistrach e Rostropovitch. Credo di non poterli nominare tutti. Mi piace ascoltare tutti quei musicisti che suonano con passione ed onestà».

In passato hai incontrato Cecil Taylor a Berlino, immagino per un seminario organizzato da FMP. Quanto è stato importante questo incontro per la maturazione del tuo stile?

«La prima volta in cui ho incontrato Cecil Taylor è stato al clinic. Ma poi ho fatto un progetto con lui, a Kassel al Documenta (una rassegna che coinvolge l’intera città con artisti contemporanei che provengono da tutto il mondo). Abbiamo fatto una settimana di prove intense per diverse ore al giorno e una performance di tre ore di fronte a ben mille persone. Avrei dovuto fare anche un terzo progetto, ma poi è nato mio figlio. Ho voluto partecipare a quel seminario perché volevo prendere parte all’esperienza musicale di Cecil Taylor, al suo approccio alla musica e alla vita, al suo modo di comunicare la sua musica alle altre persone, ai musicisti con cui suona e sua audience. E’ stata un’esperienza davvero intensa. Ne ho tratto una grande ispirazione, che mi ha fatto pensare parecchio alla mia musica, anche se non ho cambiato molto nel mio modo di farla. Semmai mi ha stimolato a continuare a esplorare».

Un po’ di tempo fa, Inghilterra, Olanda e Germania erano i tre paesi di riferimento per quanto riguarda esperienze musicali di stampo improvvisativo. Da circa dieci o quindici anni l’improvvisazione sembra essersi diffusa in diverse parti del mondo, attraverso differenti sensibilità. Come vedi la scena svedese?

«Non so se il cosiddetto free jazz è esistito solamente nei paesi che hai nominato. Ho vissuto a lungo in Francia e ho scoperto una scena improvvisativa molto vivace là. Probabilmente i musicisti inglesi, tedeschi e olandesi erano più abili nel marketing e nel loro modo di creare contatti viaggiando, rispetto ai musicisti di altri paesi. In Svezia da qualche anno esiste un crescente interesse nei confronti della musica improvvisata. Non che sia semplice trovare dei concerti o che si venga pagati decentemente per una performance, ma si possono trovare diversi giovani che ascoltano con entusiasmo questa musica. Credo che l’improvvisazione potrebbe essere una delle sfide più interessanti in ambito musicale, capace di regalare una grande libertà, così come una grande responsabilità. E’ un ambito in cui si può essere creativi e sviluppare tutto quello che viene in mente, naturalmente se si hanno gli strumenti per organizzare le proprie idee in un processo. C’è bisogno di una discreta dose di tecnica se si vuole fare un buon lavoro.

La scena svedese è articolata in tre aree: una a Stoccolma, un’altra a Göteborg e una terza a Malmö, ma le relazioni non sono molto consolidate, probabilmente perché tutti hanno paura di dividere troppo la torta (e i pochi soldi in ballo…).
Purtroppo sembra la stessa cosa anche in altri paesi e la Svezia non fa eccezioni. I musicisti viaggiano parecchio e, dal momento che il paese conta nove milioni di abitanti e l’interesse per la musica improvvisata è proporzionato a quel numero, credo che la Svezia sia ben rappresentata in questo ambito».

Il tuo trio con Peeter Uuskyla e Peter Friis Nielsen ha diverse relazioni con gruppi teatrali e collettivi di pittori. Ti abbiamo visto recentemente a Milano con alcuni musicisti e una ballerina. Non credi che questo tipo di sinergia tra le arti appartenga a un modello ormai antiquato, come già facevano Pollock o Brötzmann più di trent’anni fa?

«Chi può pretendere di reinventare il mondo e uscirsene con qualcosa di mai visto o sentito? Io credo che questo rapporto non renda la sinergia meno affascinante. Attraverso la creazione di un incontro tra diverse espressioni artistiche, si riesce a parlare ai diversi sensi. Nel corso degli anni mi sono resa conto che molte persone hanno paura della musica improvvisata, così non le assegnano alcun credito.
Guardare un pittore che lavora insieme ad alcuni musicisti, invece, può diventare più facile: non occorre più concentrarsi unicamente sulla musica, ma si può seguire lo sviluppo del disegno, anche se questo è assolutamente astratto. Ognuno, poi, può fare le sue associazioni e crearsi le sue immagini. La musica improvvisata, allora, crea senso, diventando qualcosa di non così difficile da ascoltare.
Questo è un aspetto. L’altro riguarda i movimenti e i colori che sono elementi in grado di amplificare i suoni, così come di indicare un percorso verso cui muoversi. I musicisti vengono cioè ispirati da ciò che vedono.
Credo che ciò crei un’altra dimensione per la musica, così come un’altra dimensione viene creata per la danza e la pittura. Siamo in grado di immaginarci un danzatore senza musica?».

La musica improvvisata è ancora in cerca di una più attenta considerazione da parte dei media, ma anche delle istituzioni deposte all’organizzazione dei concerti. Credi più nel modello FMP, cioè nella totale indipendenza, o pensi che ci sia la possibilità di trovare nuovi spazi all’interno delle istituzioni più tradizionali?

«È vero, la musica improvvisata non è generalmente ben voluta dai media, così diventa arduo promuoversi e trovare un pubblico. Quando si ascolta questo tipo di musica, non si può fare dell’altro, perché occorre concentrarsi su quello che si ascolta.
Si divide il cibo in “slow-food” e “fast-food”, anche se è il primo a regalarci qualcosa da ricordare. La stessa cosa si può dire per quanto riguarda la musica. L’improvvisazione è più simile allo “slow-food”: richiede tempo per prepararla, tempo per consumarla e digerirla, ma rimane dentro di noi per un periodo più lungo.
Non so quanto sia indipendente FMP, dal momento che riescono a sopravvivere con il denaro pubblico. Quando non ci sono soldi, non c’è musica. FMP è un bellissimo progetto che spero continui la sua vita per molto tempo. Sarebbe ottimo mettere un piede in qualche istituzione, penso alle associazioni che si occupano di musica da camera, musica classica, jazz e Nuova Musica. Ma c’è bisogno di coraggio e uno sforzo di marketing notevole perché una cosa del genere possa accadere. Probabilmente ci vorrà del tempo prima che il pubblico si abitui ad ascoltare diverse espressioni artistiche e a valutarle tutte in modo equanime».

marzo 2003 © altremusiche.it / Michele Coralli

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