Sciarrino e l’eco delle voci [intervista]

Foto: Luca Carrà
Michele Coralli
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Il XXVI Festival Milano Musica è dedicato a Salvatore Sciarrino, nell’anno in cui compie 70 anni. Un altro importante riconoscimento fa quindi immediatamente seguito al Leone d’oro alla carriera tributatogli dalla Biennale Musica nel 2016. Il compositore siciliano ha percorso, pur da autodidatta, uno dei periodi storici più tumultuosi del Novecento (anche per quanto concerne la musica colta). Lo scarto da una severa osservanza accademica (seriale prima, post-moderna poi) lo ha affrancato a un percorso che ha nella sua autonomia stilistica, ma anche linguistica, uno dei tratti che ne ha decretato le fortune in anni di confusione e di perdita di punti di riferimento, divenendo lui stesso capostipite di uno stile che ha iniziato, già da diverso tempo, a fare scuola.
“Eco delle voci” è il titolo scelto per presentare l’evento ed è proprio a quel enigmatico mondo di voci (reali o strumentali) che, rimbalzando l’un l’altra, si inseguono nelle diverse opere di Sciarrino in un continuo rimando di citazioni e ricontestualizzazioni storico-stilistiche, che l’abbondante cartellone guarda, con particolare riguardo agli ultimi 30 anni di produzione. Ci soffermiamo in particolare su Ti vedo, ti sento, mi perdo, opera inedita commissionata dal festival e coprodotta da Teatro alla Scala e Staatoper Unter der Linden di Berlino. La visione drammaturgica di Sciarrino esclude dal libretto, pur nel voluto omaggio, il compositore seicentesco Alessandro Stradella, che in realtà viene solamente evocato, come in un gioco di specchi tra una visione riflessa del passato e il frammento di ciò che ne determina nel presente.
Incontriamo il maestro durante la conferenza stampa per scambiare quattro battute. Come in una sciarada parliamo di Stradella per evocare la musica di Sciarrino.

Concordo con quanto diceva a proposito degli anniversari che si concentrano sempre sui numeri tondi. Sarebbe bello festeggiare, che so, i 71 o gli 83.

«Sì, non è come il numero 100, che sembra simbolico, ma invece è necessario. Hanno provato a sostituirlo con il 60 ma non funziona perché non c’è la giusta densità di segnali. In realtà è la bellezza di questo flusso sonoro consiste nel fatto che segnali singoli, sommandosi, diventano continuità. Uno si chiede perché festeggiare in quel momento e non prima e non dopo? Quando mi hanno dato il Leone d’oro alla Biennale – io sono fatto in maniera stupida forse – ma ho pensato: perché adesso e non prima? O magari più in là o mai?».

Il mondo musicale ha necessità di fissare dei tempi.

«Ma in realtà tutta la ritualità umana si basa sulla celebrazione. Noi conosciamo una cosa e l’amiamo quando la riconosciamo. Perché conoscerla non ci dà un’intimità. Può darci una grande emozione e una grande sorpresa, ma è il riconoscerla che la fa entrare a far parte di noi stessi».

Quindi venendo alla sua nuova opera che presenta in prima assoluta “Ti vedo, ti sento, mi prendo” possiamo dire che si è riconosciuto in Alessandro Stradella?

«No, se lo avessi studiato a fondo prima – cosa che ho fatto dopo la prima versione del libretto – non so cosa avrei potuto fare. Perché ho scoperto che Stradella è così importante come lo può essere Mozart. Mi ha cambiato la vita! Allora non fai un’opera su Mozart. Se l’avessi scoperto prima non l’avrei fatto o avrei cambiato tutto [ride]».

È partito dalla sua vita immagino.

«All’inizio dalla vita, perché è interessante. Stradella è uno che si rende autonomo dalla servitù nelle case nobili. È il primo nella storia che tenta questa via ed è una cosa che gli avrà dato anche molta insicurezza. Forse molte delle sue disavventure dipendono da questo suo spirito di indipendenza, ma anche dal libero amore e dallo scappare in queste fughe d’amore. In realtà poi conoscendo meglio la sua musica, penso che non sia stato possibile che lui fosse un così grande libertino, se no questa musica quando la scriveva? È una musica non solo di una qualità alta, ma anche di un’invenzione continua. Händel non esisterebbe senza Stradella. Quando lo ascolti, senti Händel 50 anni prima. E poi Händel ha attinto da lui. La prima cosa pubblicata da Stradella è una cantata che appare in appendice alle opere di Händel in quanto aveva il manoscritto e l’aveva trasformata nei cori di Israel in Egypt. Forse Händel andando a Roma ha visto i suoi manoscritti, se ne è innamorato. La strumentalità, la sua articolazione – rispetto alla parte più arcaica di linguaggio tipo Monteverdi o Cavalli – è proprio questo stile di articolazione che poi diventa quello della musica tedesca, di Händel, di Bach. Ci sono delle progressioni che sembrano scritte da Bach».

Una grande libertà.

«Una grande invenzione. Un respiro molto corto che è la cosa che ti compisce all’inizio. Almeno, era una cosa che aveva colpito me e mi aveva anche lasciato perplesso. Sono pezzi brevissimi. Lui brucia tutto subito. Se entra un personaggio può anche interrompere un’aria, certe volte. In altre parole: ha questa concezione modernissima. Come dicevo a proposito della cantata Si salvi chi può, la musica di Stradella è un’irruzione nel linguaggio della vita di tutti i giorni».

ottobre 2017 © altremusiche.it

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