Paul Rutherford: l’utopia radicale in movimento [intervista]

Michele Coralli
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In passaggio da Milano per un paio di concerti assieme a Gaetano Liguori e per un workshop sull’improvvisazione presso il Conservatorio Giuseppe Verdi, Paul Rutherford, uno dei principali animatori della scena radicale inglese, risponde ad alcune domande sulla sua attività che da oltre quarant’anni prosegue in perfetta coerenza.

Incominciamo allora dall’aspetto didattico del suo lavoro. Come si riesce ad trasmettere l’improvvisazione?

«In effetti non si può insegnare l’improvvisazione. Molte persone non riescono a entrare in relazione con la musica. Molti l’accettano, l’amano, ma non hanno la capacità di entrare completamente nella musica. Ci sono cose che io, e molti altri musicisti come me, hanno sperimentato attraverso l’improvvisazione che pensiamo possano aiutare chi improvvisa. Non ci definiamo dei maestri assoluti, ma possiamo dire qual è la migliore situazione per un musicista che vuole improvvisare. Non c’è rigidità nell’improvvisazione, non ci sono regole d’oro. L’improvvisazione è, come dice la parola, frutto di estemporaneità. Come prima cosa uno deve imparare a suonare il proprio strumento per farne il proprio migliore amico o la più intima parte di se stesso. Conoscere lo strumento e capirlo significa compiere il primo passo per creare la musica. Proprio perché non ci sono regole e confini nell’improvvisazione, i musicisti improvvisatori, come unica norma, dovrebbero essere consci di quello che stanno facendo per tutto il corso di un’improvvisazione, sia in solo che in ensemble. Per far questo occorre ascoltare quello che sta succedendo: sia quello che stiamo suonando, sia quello che suonano gli altri».

L’idea che sta alla base dell’improvvisazione collettiva è proprio quella della cooperazione.

«Cooperazione, o meglio conversazione. Nella perfomance in solo c’è un’entità con cui entrare in accordo. Una delle proprietà simili tra l’improvvisazione e la musica basata convenzionalmente sulla lettura è quella di pensare la musica come una priorità. Un improvvisatore deve essere coinvolto nella musica, questa è la priorità. Come realizzare i tuoi sforzi per far scaturire i tuoi pensieri. Ogni strumento ha molte potenzialità nei suoni che può produrre. Ovviamente non mi riferisco soltanto ai suoni convenzionali, ma anche tutti quei suoni che possono essere introdotti o scoperti dentro lo strumento. Ad esempio nel trombone si possono trovare sonorità estremamente differenti tra loro a cui si può ricorrere nel corso di un’improvvisazione. La stessa cosa può avvenire su un pianoforte su cui possono essere suonati i tasti, così come percosse le corde e così via. Ci sono così tanti suoni non specifici, non peculiari di uno strumento, che possono essere introdotti nel corso di un’improvvisazione. La scoperta è una grande potenzialità dell’improvvisazione, forse molto di più che della musica convenzionale, dove lo strumentista si relaziona con un direttore o un compositore. Nell’improvvisazione non esistono questo tipo limitazioni “dittatoriali” che servono a dar ragione a una composizione. Nell’improvvisazione la composizione sei tu e il tuo strumento».

Sul lato opposto c’è però l’ascoltatore. Pensa che sia meglio se chi ascolta è un musicista o questo può semplicemente aiutare a capire un po’ meglio questo tipo di musica? Allo stesso modo lei crede che un fruitore totalmente all’oscuro di nozioni musicali possa apprezzare un’improvvisazione di tipo radicale?

«A volte si creano situazioni strane in cui i non-musicisti riescono ad apprezzare la musica improvvisata meglio che i musicisti. Forse è a causa delle strutture mentali di tipo educativo che provengono dalle scuole di musica. Spesso queste strutture possono diventare dei dogma. È un pericolo quando questi dogma limitano la pratica di un musicista, impedendo di cercare canali alternativi nella creazione della musica. Per questo, a volte, i non-musicisti sono meglio dei musicisti».

Si tratta di ascoltatori “educati” in qualche modo…

«Possono esserlo, ma non c’è una regola definitiva che riguarda la mente degli individui. Essere coinvolti nel suonare è un grande vantaggio per chi vuole capire la musica, ma ci possono essere dei vantaggi anche tra i non-musicisti, come ho già detto. Il problema è cosa ne fanno i musicisti e i non-musicisti di un’improvvisazione? Sta a loro decidere. Non sapere suonare non è un ostacolo alla fruizione di un’improvvisazione. I bambini ad esempio sono i migliori ascoltatori perché hanno la spontaneità, sono aperti».

Io mio approccio personale è invece molto mentale. Quando vedo un concerto di questo tipo o ascolto un disco di musica improvvisata mi preparo mentalmente ad un tipo di ascolto particolare. Quante persone pensa che abbiano la stessa voglia di porsi in modo problematico di fronte ad un tipo di musica impegnativa come questa? E come può gente come lei parlare a chi ascolta pop dalla mattina alla sera?

«Il problema riguarda sia il jazz che la musica improvvisata, entrambi generi non così amati dal grande pubblico come il pop. La gente deve compiere uno sforzo per ascoltare il jazz, ma anche per trovarlo, cosa che non capita al pop che può essere reperito dappertutto, dal supermarket agli aeroporti. Anche la diffusione è generalizzata: dovunque uno vada, dai bar ai ristoranti, sentirà molto raramente jazz. E il jazz è molto più popolare della musica rigorosamente improvvisata (“straight improvvised music”) ed è anche più accessibile. La vera essenza della musica improvvisata è che essa è veramente una musica in possesso dei musicisti. Il problema di questa musica è che risiede ai margini. L’improvvisazione è un’arte che si può reperire nella musica nel suo complesso: anche Bach, Mozart e Beethoven erano in grado di improvvisare per ore. Poi nel corso del tempo l’improvvisazione è diventata una delle attività collaterali connesse al fare musica. Ma è una sorta di valore necessariamente connesso con la musica, in maniera intrinseca. La composizione naturale è l’improvvisazione: in realtà anche la composizione vera e propria è una sorta di forma finale di un’improvvisazione, strutturata attraverso delle convenzioni».

Parliamo ora del rapporto tra la registrazione e l’improvvisazione. Un disco, che è anche minima parte della vita improvvisativa di un musicista, può intrappolare il gesto volto all’improvvisazione, ma si tratta di una piccola istantanea. È d’accordo?

«Esattamente. La registrazione è il solo mezzo per rendere permanente un set di improvvisazioni. In effetti si possono ripetere delle improvvisazioni, copiandole, ma si perde l’azione di tutta l’improvvisazione, non c’è spontaneità. Tutta la musica ha una serie di rapporti complementari che non sono in conflitto. Così l’improvvisazione non è una minaccia per la composizione e la composizione non è una minaccia per l’improvvisazione. Esse sono complementari, sono diversi modi per creare musica».

Lei ha suonato con grandi orchestre, con gruppi più ristretti e in duetti di vario genere. In quale tipo di esperienza ha trovato più slanci per la propria creazione estemporanea?

«Non ho un organico preferito, mi sento più a mio agio con certi musicisti o con certi strumenti forse. Ma non posso dire con certezza quali siano i miei preferiti. La mia idea di improvvisazione è che ci si possa meravigliare per qualche imprevedibile accostamento di strumenti. Dipende anche dai musicisti che creano la musica. Io guardo anche le esperienze passate dei musicisti, se mi interessano allora sono stimolato, altrimenti faccio qualcosa d’altro. Naturalmente nei piccoli ensemble è più facile fare dell’improvvisazione, le grandi orchestre richiedono una maggiore pazienza. Abbiamo esempi di grandi ensemble di 20 musicisti che improvvisano a volte con buoni esiti, a volte con esiti mediocri. Dipende anche da quanto i performer si ascoltino o meno».

Ci parli di esperienze come quelle nella Globe Unity o della più recente London Improvisers. Quali sono state le differenze principali tra i due ensemble?

«La Globe Unity ha iniziato con delle composizioni di Alex Schlippenbach, sviluppate e orientate attraverso session e concerti. Una delle cose che ha iniziato a non convincermi più era che l’improvvisazione diventava sempre più un momento di grande masse sonore, inframezzato dai momenti dei solisti. Incominciò a diventare un affare di routine spiccare nel solo e rientrare nell’orchestra. Ma molte volte ha funzionato bene come nel caso di un’altra band che avevamo formato a Londra: Iskra. Lì avevamo deciso di lasciare più libertà di intervento e i solisti potevano intervenire quando se la sentivano. La responsabilità era lasciata ai musicisti che potevano scegliere di fare le cose che volevano e che potessero essere utili per il collettivo: suonare 2 o 3 minuti, oppure 2 o 3 secondi».

È dura l’esistenza professionale per un musicista dedito interamente all’improvvisazione?

«È molto difficile, sicuramente. È difficile già suonare jazz, figuriamoci con l’improvvisazione. Non c’è nessuna grande industria dietro. Il management che governa le scelte dell’industria discografica non guadagna molti soldi dai musicisti jazz e nemmeno un soldo da chi improvvisa».

Rimane l’insegnamento…

«Non proprio. Nell’educazione statale l’improvvisazione è molto poco considerata dagli educatori, al contrario delle strutture formali tradizionali come le orchestre sinfoniche o le consuete compagini strumentali. L’improvvisazione non rientra tra le strutture convenzionali».

Rispetto qualche anno fa come è cambiata l’attenzione da parte dei media e del pubblico nei confronti della scena radicale in Inghilterra?

«Trent’anni fa la situazione era migliore dappertutto per la musica creativa. La Gran Bretagna ora è ancora più disinteressata a questo tipo di musica se la si raffronta all’Europa. Ci sono audience davvero piccole e manca la volontà di organizzare dei festival».

Recentemente viene organizzato “Freedom in the City” una rassegna organizzata a Londra, interamente dedicato all’improvvisazione. Che tipo di risposta c’è in questo tipo di festival?

«È un festival molto seguito. Ma si tratta di un’iniziativa che parte dai musicisti. Finora ci sono state due edizioni e Martin Davidson ha interamente registrato l’ultima e pubblicata in due CD doppi. La prossima è fissata per la prima settimana di maggio (2002). Nel complesso credo che abbiano assistito alla rassegna 200 o 300 persone. La stessa London Improvisers Orchestra organizza la prima domenica di ogni mese un concerto al Club Red Rose nel North London. È il posto dove molti musicisti si ritrovano per un concerto ‘aperto’, ma nessuno viene pagato. Freedom in the City invece sta per diventare una vera pietra miliare per la scena improvvisativa».

aprile 2002 © altremusiche.it / Michele Coralli

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