Jan Garbarek Quartet [Auditorium di Milano, 19 maggio 2003]

Michele Coralli
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Jazz come rito di trasfigurazione, come purificazione e tensione verso l’immateriale, ma soprattutto come cerimonia di iniziazione al cerchio degli eletti, il mito di Jan Garbarek e della sua musica apertamente evocativa si può racchiudere nell’evanescente riverbero di una nota che decade subito dopo essere stata emessa. Tutto scorre e si trasforma attraverso un tempo che non possiamo né cogliere, né fermare. L’Oriente sembra averci indicato molte cose, ma sono in pochi quelli che probabilmente hanno capito qual è la strada da seguire. Garbarek guarda in quella direzione e l’Oriente passa attraverso le colonne d’aria del suo soprano sotto forma di scale ricche di frazionamenti tonali e movimenti melismatici cari alle tradizioni non tonali extraeuropee. Gong e cimbali poi costruiscono quel quadro da cartolina tibetana che può muovere al misticismo anche il più arido ragioniere. Quando però ci sembra aver chiaramente messo a fuoco il cammino da percorrere, quella che suole dirsi “arte della variazione” (secondo le buone regole occidentali) ci mette di fronte a un bel tappeto di tastiere infarcito di assoli volti all’armonia più consolidata, forse un po’ troppo estetizzanti per poter rientrare in qualcosa che sa di “tradizionalmente” jazz. Ma come di diceva prima, questo è il vivido regno della trasfigurazione, in cui tutto passa attraverso una ferrea condotta regolata da una rigida autodisciplina. Il rapporto con il folk nord-europeo è sicuramente vissuto come una ricerca delle radici, ma anche, come annullamento del legame vincolante con le ormai sorpassate fantasie afroamericane. Il jazz di Garbarek è un filo rosso che aggancia la misteriosa Norvegia alla sterminata Asia, per poi ritornare alle platee occidentali, infarcito al punto giusto.

In calce alcune sensazioni raccolte durante il concerto del quartetto nella sempre più apprezzata sala dell’Auditorium di Milano e limitate qui a un mero elenco di immagini annotate sul mio taccuino: “lunghe suite dal suono molto controllato celano al loro interno dimensioni che tendono ad un passato di militanza sperimentale”; “Eberhard Weber: un basso troppo pedalato, ma gradevolmente fusion, meglio di tanti cloni alla Peacock”; “Rainer Brüninghaus e Marilyn Mazur troppo comprimari e poco personalizzanti, mestieranti di lusso (probabilmente molto ben pagati)”; “simpatia e antipatia: Lou Reed viene in Italia a dire: ‘amo Italia, amo spaghetti, mandolino, ecc.’ (o poco ci manca) catturandosi le simpatie delle stampa alla ricerca del vuoto, ma questi norvegesi temono che dire una parola faccia perdere ogni afflato spirituale? Noi da che parte stiamo: da quella del venditore di noccioline o del sacerdote?”

maggio 2003 © altremusiche.it / Michele Coralli

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