La musica a 80 anni – Tre domande ad Azio Corghi [intervista]

Immagine tratta da "Omaggio ad Azio Corghi - Intelligenza e ironia" a cura di NoMus, Museo del Novecento, 2017. Foto: Michele Coralli
Michele Coralli
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Ricercare e sperimentare il nuovo, dentro e fuori la musica. Questo l’imperativo morale di ogni buon musicista. Azio Corghi lo ha fatto, sia esplorando i suoni a partire dalle tecniche esecutive in grado di valorizzare gamme timbriche non convenzionali, sia passando al setaccio diverse suggestioni letterarie, in virtù di un tipico approccio illuminista che situa all’interno di un laboratorio il punto di partenza di un percorso estetico. L’adesione all’avanguardia non ha disumanizzato la sua musica, bensì l’ha arricchita di quel rigore, di quella solidità ma anche di quella leggerezza che che fanno di opere come Blimunda (1990) uno spartiacque tra il Novecento più ortodosso e il nuovo secolo liquido. Punto di contatto tra quelli che sembrano due estremi inconciliabili una visionarietà comune anche a quegli autori con i quali Corghi è entrato in relazione artistica: come José Saramago, co-librettista e ispiratore, oltre che di Blimunda, anche de Il dissoluto assolto (2005) e Divara (1993) o il russo Anton Čechov per Tat’jana (2000) e Sen’ja (2002). A margine dell’omaggio allestito dall’Associazione NoMus in occasione dei suoi ottant’anni, incontriamo il maestro per una brevissima chiacchierata.

 

Immagine tratta da “Omaggio ad Azio Corghi – Intelligenza e ironia” a cura di NoMus, Museo del Novecento, 2017. Foto: Michele Coralli

Un autore accademico, ma molto interessato a ciò che avviene fuori dall’accademia. Contemporaneo, ma anche molto attento alla classicità. Azio Corghi è un autore che sta nel mezzo?

«No, un autore che cerca di essere se stesso e che cerca sempre di comunicare. Cioè di fare in modo che la cultura di appartenenza possa essere un punto di riferimento per il destinatario di un messaggio musicale, così come per il creatore di tale messaggio. Quella cultura non va disprezzata, né persa. Bisogna semmai coltivarla per andare avanti. E per fare questo ci vogliono anche le nuove generazioni. Se non si insegnano soltanto “i mezzi” per avere successo, ma anche ciò che serve per dire quello che si pensa (la verità o le idee per cui lottiamo), allora può succedere di incontrare uno come Saramago che aveva scritto Memoriale del convento, ma che non era ancora diventato premio Nobel. E quando lo è diventato, anche per lui le cose sono cambiate, perché lì si entra in un sistema. E quel sistema, che fa le classifiche per i proprio tornaconti, né io, né Saramago l’abbiamo mai accettato.

Poi oltre a lui, per me è stato molto naturale spingermi indietro e trovare Pasolini, Čechov e tutti gli altri. Andando più avanti invece ho trovato Ligeti e tutti quei compositori che hanno una grande professionalità, come  anche Kurtág. Questi autori prima fanno gli interpreti, cioè prima vogliono suonare, vogliono fare, vogliono dire… Poi cercano di fissare il loro pensiero e scrivono. Allora il rapporto tra segno e suono diventa un problema, ma se lo si affronta con capacità tecniche – “ho studiato un gesto e voglio farlo” – allora salta fuori un pezzo come quello ascoltato questa sera, che ho dedicato a Paganini [Syncopations per violino]».

Immagine tratta da “Omaggio ad Azio Corghi – Intelligenza e ironia” a cura di NoMus, Museo del Novecento, 2017. Foto: Michele Coralli

Cechov, Pasolini e Saramago. Cosa hanno in comune ai suoi occhi questi tre autori?

«Prima di tutto sono sinceri. Sono autori che raccontano se stessi. Non per il successo o per l’apparenza, come fanno molti. Ma per vedere se attraverso quello che dicono riescono a avere qualcuno che si sintonizza con loro, qualcuno che capisce. Allora si comunica e questa è la cosa più importante: comunicare e parlarsi. Purtroppo viviamo in un mondo nel quale anche la comunicazione ci viene offerta in modo artefatto. Te la impongono – basta vedere i telegiornali. C’è un ordine che non è più comunicazione perché non c’è dialettica».

Per cosa bisogna lottare allora, oggi, da musicisti?

«Come sempre per la verità. Per tutte quelle cose che ci appartengono. La cultura, che non dobbiamo abbandonare per fare “il nuovo per il nuovo”, ma per fare un nuovo basato sulla cultura di appartenenza, cioè quella da cui veniamo. Allora lì abbiamo la possibilità di intravedere un contatto con le generazioni precedenti e di offrire al futuro la nostra collaborazione, la nostra voglia di comunicare, la nostra voglia di non essere diversi da ciò che siamo».

[intervista andata in onda su Rotoclassica – Radio Popolare il 14 dicembre 2017]

marzo 2018 © altremusiche.it

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