Vincenzo Ramaglia: Suoni in formaldeide [intervista]

Michele Coralli
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Comporre musica contemporanea può significare traviare il tempo per distanziarsene. L’iter che Vincenzo Ramaglia ha scelto sembra essere quello di molti colleghi che sviluppano dei ripensamenti rispetto al passato, utili a ridefinire il proprio ruolo e a iniziare a stratificare nuove estetiche. Indietro, al Novecento storico, non si torna!

Formaldeide è una composizione strutturata in otto movimenti per un ensemble pianoforte/clarinetto/sax/flauto. Un lavoro molto intimo e riflessivo, , un buon biglietto da visita. Ce ne vuoi parlare?

«Più un lavoro è intimo e riflessivo, più è difficile trovare le parole giuste per descriverlo. Mi è capitato di sintetizzare (e semplificare) con questa formula: “Musica contemporanea evocativa e atmosferica che sperimenta nuove, stranianti alchimie sonore, immergendo la sofisticata esuberanza del Novecento (da Prokof’ev al jazz) nell’universo riflessivo di Sciarrino”. Ma forse è meglio andare per esclusione, magari precisando cosa la mia musica NON è, o almeno non vuole essere. Non vuole essere “accademica”, non vuole essere ermetica ed elitaria (rivolta cioè a qualche addetto ai lavori in sale da concerto semi-deserte), non vuole essere – nemmeno latentemente – ruffiana (e cioè rinunciare alla sfida sperimentale e alla conquista del presente, per raggiungere il numero più alto possibile di ascoltatori). Quello che si prefigge Formaldeide, insomma, è di trovare nuove strade senza necessariamente aggredire l’orecchio, insinuando il piacere dell’ascolto senza necessariamente rinunciare a interrogarsi sul suono, sul silenzio, sul presente…».

Vuoi spiegarci il titolo e come è nata questa composizione?

«L’idea embrionale di Formaldeide mi è venuta qualche anno fa, al Museo Madre di Napoli, di fronte a un’istallazione di Damien Hirst (dal titolo “Fuori dal gregge”), consistente in un parallelepipedo di vetro all’interno del quale galleggiava nella formaldeide – come sospesa nel vuoto, decontestualizzata, astratta pur nella sua fisicità – una pecora. Chissà se è possibile mettere la musica in formaldeide, mi sono chiesto. Ecco perché, a distanza di qualche anno, ho tentato di far galleggiare frammenti di sapore jazzistico (affidati al sax, “familiari” come l’immagine di una pecora) in una “formaldeide” di armonici, multifonici e glissandi (affidati a flauto e clarinetto, che in un certo senso congelano, decontestualizzano il sax). Se poi a questo si aggiunge il singolare contrasto tra il suono suadente della parola “formaldeide” e la macabra sostanza a cui è legata, penso proprio che non avrei potuto trovare un titolo diverso per questo mio lavoro…».

Hai lavorato anche su forme orchestrali molto ampie. Quali sono gli organici che prediligi per la tua musica? Posso dirti che ho trovato esiti più felici nel suddetto ensemble?

«Non solo puoi dirmelo, ma è proprio quello che mi auguro. Anche se non penso si tratti di organico, ma di maturazione linguistica (per quanto è vero che un organico più intimo possa spesso essere più funzionale a un linguaggio più intimo: sicuramente adesso prediligo organici più raccolti, all’interno dei quali avvicinarmi al suono più estremo, inconsueto, nascosto dei singoli idiomi strumentali). I miei “vecchi” lavori scandiscono non tanto la maturazione di un linguaggio, ma l’acquisizione delle sue basi. Omnis mundi creatura per coro (che ho scritto nel 1996), Scherzo per orchestra (scritto nel ’99, con cui ho anche vinto il “Tim”) – tanto per fare degli esempi – sono tappe importanti, che non rinnego affatto, ma inevitabilmente legate a un iter formativo, all’interno del corso di composizione in Conservatorio: con questi lavori ho scrutato i segreti di una parte di Novecento a me particolarmente congeniale (quella non viennese, per intenderci: Prokof’ev, Stravinskij, Bartók, Ravel, Šostakovic, ecc.), ho imparato a utilizzare una buona porzione delle possibilità di un organico orchestrale, ho dato sfogo al mio amore per il ritmo (anche nelle sue combinazioni più complesse) e per le poliarmonie.

Ma ancora non c’era l’urgenza di indagare (e riflettere) sul presente, e di proporre nuove alternative sonore, unica urgenza che possa davvero contraddistinguere (e definire) l’espressione “musica contemporanea”. Il Conservatorio (pur con gravi arretratezze, lacune, chiusure) può offrire degli strumenti, ma poi – per spiccare il volo alla ricerca del “proprio” presente, per aspirare alla conquista di una propria cifra, per penetrare il “contemporaneo” – è assolutamente vitale “disintossicarsi” dall’accademia. Conclusi i miei studi al Santa Cecilia di Roma, è stato prezioso per me passare diversi anni senza scrivere una nota, in un lungo, indispensabile silenzio introspettivo. Formaldeide segna il mio tornare alla luce da quel silenzio, con la voglia di proporre qualcosa di nuovo, di personale, di “vivo”: semplicemente “musica contemporanea”. Tutto questo per dirti che non mi dispiace affatto che tu preferisca Formaldeide ai miei precedenti lavori, anzi…».

In quanto direttore di un’accademia di cinema e televisione (Griffith di Roma), quanto credi che questi linguaggi abbiano contaminato il tuo modo di pensare la musica?

«Scrivo anche colonne sonore e ritengo che la musica da film sia un territorio affascinante e ricco di possibilità inesplorate, ma generalmente (eccezioni a parte) sottomesso alle proprie leggi e sostanzialmente differente rispetto alla sperimentazione musicale contemporanea “non applicata”.
Oltre a dirigere la Griffith, tengo (sia nella mia scuola di cinema che in altre strutture formative del settore) lezioni di una materia non molto conosciuta, il “linguaggio audiovisivo”, basate sulla proiezione e l’analisi di numerosissime sequenze cinematografiche, relativamente al rapporto tra immagine e suono (inteso a 360 gradi, quindi non soltanto come “musica da film”). Qualche anno fa ho anche pubblicato con l’editore Dino Audino un testo che raccoglie queste mie lezioni: “Il suono e l’immagine. Musica, voce, rumore e silenzio nel film”. In effetti, paradossalmente, penso abbia influenzato il mio pensiero musicale più il suono cinematografico che la musica cinematografica: probabilmente Formaldeide è debitore di suggestioni legate a un certo fine utilizzo del suono e del silenzio da parte di registi – come Bergman e Tarkovskij, ad esempio – che nei propri film hanno creato atmosfere sonore innovative e straordinarie: senza saperlo, erano compositori di musica contemporanea!».

Mi fa piacere che citi Tarkovskij, parlando del rapporto tra suoni e immagini. Condivido esattamente l’idea di porterlo considerare a tutti gli effetti “un compositore di musica contemporanea”. La perfezione di certi suoi film si misura non solo dall’uso strepitoso della fotografia, ma anche del silenzio. Forse la realizzazione di ciò che Cage aveva solamente intuito…

«Recentemente ho letto un testo in cui Calasso definisce Cage più ancora che compositore, “inventore” del Vuoto (laddove la malattia di cui maggiormente soffriamo è proprio il Pieno). In effetti quel vuoto ci fa scoprire tutto ciò che altrimenti passerebbe inosservato (o meglio inascoltato). Personalmente, dunque, ritengo che dal vuoto di Cage non emerga il silenzio ma l’impossibilità del silenzio, un caleidoscopico e vitale sottobosco di suoni altrimenti impercettibili.
Se un regista come Tarkovskij attinge da questi “suoni al limite del silenzio” (che Cage fa affiorare nella loro aleatorietà) e ne intesse sapientemente poetiche sinfonie, descrivendo luoghi al riparo dalla vita in cui finalmente ascoltare se stessi, allora non posso che essere pienamente d’accordo con te: è una meravigliosa, personale “messa in opera” delle intuizioni di Cage!».

aprile 2008 © altremusiche.it / Michele Coralli

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