Roberto Paci Dalò, drammaturgo dei media [intervista]

Michele Coralli
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Compositore, regista, artista visivo Paci Dalò ha scritto e diretto tra Europa, Americhe e Medio Oriente spettacoli teatrali, eventi musicali, performance e installazioni. Direttore artistico della compagnia Giardini Pensili, ha posto al centro della propria attenzione artistica l’investigazione del linguaggio, dei sistemi delle telecomunicazioni applicati ai processi artistici e delle nuove tecnologie. Diverse sue opere sono “diventate” pezzi radiofonici, installazioni interattive suono/video e progetti on-line.

Ti devo confessare che il tuo curriculum è uno dei più complessi che abbia mai letto. Dove riesci a trovare il tempo per fare tutte queste cose?

«Il piacere dilata il tempo. I miei progetti sono in realtà legati a poche “linee guida” che continuamente ritornano come le parole chiave. Queste però hanno la necessità di svilupparsi su più territori e con più linguaggi, per poter lavorare su aspetti percettivi differenti. Sono abbastanza concentrato nel lavoro. Il problema sono i viaggi che ogni volta scombussolano la (piacevole) routine della scrittura. Ma i viaggi accendono la fantasia e motivano il fatto di fare questo strano lavoro».

Facezie a parte la questione che balza agli occhi è il tuo difficile inquadramento artistico. Probabilmente non siamo ancora abituati a un tipo di artista “totale” che si impegna nei diversi campi della comunicazione: da quella visiva a quella uditiva, eccetera. Dal punto di vista personale a che tipo di modello artistico ti piacerebbe aspirare?

«Non posso parlare di “un” modello artistico. La pluralità è d’obbligo e sta in relazione ai linguaggi e ai territori diversi. Per esempio uno dei miei modelli cinematografici è David Lynch, ma questo può essere irrilevante dal punto di vista del linguaggio musicale. Altri modelli sono John Cage (col quale c’è stata una bella e importante amicizia), Heiner Müller, Giya Kancheli e tre maestri del colore e della luce come Mark Rothko, James Turrell, James Rosen. Devo dire che ho avuto la grande fortuna di avere dei riferimenti artistici in amici con i quali lavoro o ho lavorato in passato. Penso ad esempio ad artisti come David Moss, Olga Neuwirth, Luca Ruzza, Richard Long, Maurizio Cattelan, Gabriele Frasca, Giorgio Agamben. Se devo collocare il mio lavoro in qualche modo allora penso a una risposta “meridionalista” alla ricerca di autori “nordici” come Heiner Goebbels e Robert Lepage, entrambi molto interessanti proprio nella visione plurima del fare creativo. Con la mia compagnia Giardini Pensili ho cercato in questi anni di sviluppare progetti in libertà, in grado di relazionare materiali in certi casi apparentemente inconciliabili, ma a mio avviso necessari, per creare un luogo concreto di azione in cui il pubblico attraversa queste opere (soglie) per arrivare ad altro. A un certo punto l’oggetto quasi scompare avendo esaurito la sua funzione di “interfaccia”. Penso che l’interesse del pubblico per un mio lavoro sia solo una fase di un processo, che ha la necessità di andare oltre per sviluppare qualcosa d’altro che trascenda l’opera. Ciò non significa assolutamente sminuire il lavoro, piuttosto relazionarlo a un mondo ben più complesso, evocato magari proprio da un dettaglio contenuto nell’opera».

… spiegami meglio questo “andare oltre l’opera…”

«Il problema vero è quello del contesto, cioè come un’opera viene presentata e che “rispetto” esiste nei confronti del pubblico. Io cerco di presentare progetti che, seppur in territori diversi, usano di volta in volta la storia e le modalità del linguaggio scelto. Ad esempio uno spettacolo teatrale ha la necessità di riferirsi a una storia che è quella del linguaggio scenico. Il pubblico a teatro spontaneamente è portato ad analizzare uno spettacolo in quanto teatro, solo così è in grado di giudicare la qualità – o meno – del lavoro. Ma lo stesso si può dire di qualsiasi disciplina. Penso che si debba tenere conto di questo anche nella trasformazione di un progetto da un territorio all’altro. L’installazione creata a partire da una scena teatrale ha modalità percettive completamente diverse, anche di fronte gli stessi materiali e la stessa estetica. Nello spettacolo il tempo di fruizione è deciso dall’autore, mentre nell’installazione sarà il visitatore a organizzare il proprio montaggio dell’opera. Questo è un discorso lungo ma lo ritengo importante proprio per evitare genericità e permettere un incontro “alla pari” del pubblico con il lavoro».

Come sono nate collaborazioni come quelle con David Moss, Kronos Quartet, Stefano Scodanibbio e i Virtuosi di Nuova Consonanza?

«La collaborazione con David Moss risale al 1992, quando lo invitai come solista per un mio lavoro a Innsbruck. Da allora lavoriamo regolarmente insieme, sia in duo, sia in progetti teatrali-musicali più complessi. Nel 1994 è stato uno dei solisti per la mia opera Auroras presentata allo Hebbel-Theater di Berlino. A parte il lavoro, David è uno dei miei più cari amici e cerchiamo sempre delle occasioni per vederci quand’è possibile. Un piccolo orgoglio: sono stato il primo a chiedergli di cantare senza elettronica e drum-set. All’inizio era un po’ titubante ma dopo la nostra “prima volta” ha proseguito in questa versione “unplugged” collaborando con tutti (da Goebbels a Berio fino a Die Flederemaus di Strauss a Salisburgo! E ora in Lost Highway di Olga Neuwirth a Graz). Il primo incontro con il Kronos è avvenuto nel 1987 sulle colline di Woodside a San Francisco. Ero ospite della Djerassi Foundation e il Kronos era di casa da quelle parti. Mi offrì la commissione per una composizione che eseguì in prima assoluta all’Opera di Vienna nel 1993. Si trattava di Nodas un brano basato sulla tradizione musicale sarda (in particolare sull’incontro tra il coro a tenores e la musica strumentale per launeddas). Stefano Scodanibbio (anche lui interprete di Auroras a Berlino) è uno dei miei musicisti preferiti. Abbiamo – un po’ a riposo a dire la verità – un duo (clarinetto basso e violoncello) che dovrebbe suonare di più. Anche Cardini è straordinario, gli sono particolarmente affezionato e lo giudico uno dei più intelligenti e sottili musicisti in circolazione. Riesce addirittura a farmi piacere il pianoforte (non esattamente uno dei miei strumenti preferiti). Con i Virtuosi di Nuova Consonanza c’è stato un unico incontro a Colonia. Mi fu commissionato un brano per la Musik-Triennale e il requisito era che fosse un pezzo contenente parti improvvisate. Scrissi The Wonderful Spring con notazione mista tradizionale e grafica».

Attraverso quali direttrici principali si muovono i tuoi processi produttivi? Intendo dire: un’installazione parte da un’idea o dall’intenzione di creare un forte senso percettivo?

«Per quanto riguarda il lavoro sulle installazioni (generalmente suono e video talvolta interattive), il luogo di allestimento decide fortemente la forma finale dell’opera. Sono particolarmente interessato alla creazione di luoghi immersivi, in grado di lavorare su più aspetti sensoriali. Questo fa parte anche del processo di costruzione di un concerto o uno spettacolo. Anche in eventi per così dire “strettamente musicali” non riesco a non pensare allo spazio in cui l’evento avviene e ai meccanismi di fruizione che vengono innescati. E penso allo spazio della performance come a un “campo di battaglia”, un luogo di conflitto perenne che deve il suo “stato di tensione” anche all’uso delle tecnologie dove le macchine rendono la scena un vero e proprio campo elettrico. Mi sento molto legato al pensiero di figure come Heiner Müller e Walter Benjamin che vedono la storia come un susseguirsi di catastrofi e dove la storia è come un accumulo di frammenti da montare e smontare. Con un collegamento probabilmente spericolato associo questo alla pratica del sampling. E, al di là dell’idea o ispirazione ha per me un’importanza assoluta il problema drammaturgico. Come i materiali si trasformano e si collegano – possibilmente creando cortocircuiti e problemi – grazie alla drammaturgia. E questo non necessariamente legato alla costruzione di un’opera teatrale. Non riesco infatti a pensare a una (mia) installazione o a un concerto senza una drammaturgia».

Come sviluppatore di interfacce e software per finalità artistiche, pensi che sia possibile creare arte attraverso canali “nuovi” come Internet, pensando l’arte in maniera specifica per questi canali?

«Assolutamente sì. Sono un sostenitore della rete dal 1994 e il sito di Giardini Pensili esiste dal 1995. Internet ha ancora un problema di identità per cui il campo è aperto a ogni tipo di progettualità. Ora la tecnologia c’è ed è accessibile a tutti, ma spesso mancano i contenuti e le idee innovative. Sto per rilanciare Radio Lada (web-radio creata nel 1995). Il sito verrà completamente ridisegnato e saranno creati una serie di progetti collaborativi in partenariato con artisti e strutture sparsi in tutta Europa».

Parlami del tuo approccio musicale. Tempo fa ho assistito a La natura ama nascondersi a Bologna. Un tipo di costruzione a mo’di patchwork musicale basato su tecnologie analogiche, vintage e digitali (se non ricordo male), che mischiava un gusto per la manipolazione e il collage di nastri, con voci e rumori.

«La natura ama nascondersi è un tipico esempio del mio lavoro radiofonico, in cui ho sempre amato mescolare suoni strumentali con registrazioni ambientali ed elettronica. In quel pezzo (nato per la radio e prodotto dalla ORF austriaca all’interno del programma di ricerca Kunstradio), l’aspetto narrativo era estremamente importante realizzato attraverso un doppio testo in italiano e tedesco. Amo la radio e proprio nella radiofonia sono riuscito a creare in questi anni una serie di lavori dove questo contrappunto tra parola, suono, spazio diventa fondamentale. Uso la radio come medium parallelo rispetto a alle cose che faccio. Per me è un luogo di concentrazione dove i progetti creati per la scena possono trovare altri sviluppi e altre chiavi di accesso».

Lavori ancora in questo modo o ti sei spostato su ambienti più digitali?

«Una certa parte del mio lavoro continua a sviluppare questa drammaturgia del suono nel rapporto forte con la radio e con il soundscape. Ora ad esempio sto lavorando a una nuova opera commissionata dallo Studio Akustische Kunst della WDR di Colonia (Studio che in passato ha prodotto gran parte della opere radiofoniche di artisti come John Cage e Mauricio Kagel) e realizzerò in futuro – prodotto da ORF Kunstradio – la versione radiofonica di Local & Long Distance: il concerto scenico che ho creato al International Vancouver Jazz Festival la scorsa estate e che vedeva la partecipazione di Joëlle Leàndre, Giorgio Magnanensi e Bic Hoang. Allo stesso tempo mi piace molto scrivere per organici per così dire “consueti” (il Kronos Quartet mi ha chiesto di pensare a un nuovo quartetto – dopo Nodas di qualche tempo fa – e anche l’Ensemble Modern è interessato a una collaborazione). Il mio lavoro in solo e nelle collaborazioni con amici come Scanner, Philip Jeck, Jacob Kirkegaard mi permette invece di sviluppare un aspetto legato al rapporto con l’elettronica e l’improvvisazione. Sono affascinato da un utilizzo molto minimale dell’elettronica, legato per esempio ad artisti come Carsten Nicolai e Ryoji Ikedae basato sul puro suono sintetico. Allo stesso tempo mi interessa molto un’immersione nell’analogico basata sulla micro-esplorazione del sample “sporco”, in particolare legato alla voce umana e ai suoni ambientali e di come questi materiali possano venire scandagliati grazie alle tecnologie digitali. Spesso questi lavori elettronici trovano proprio nel rapporto con l’immagine nuovi orizzonti. Come nel caso di Blue Stories un progetto di live cinema girato, montato e presentato on-the-road.Talvolta l’approccio filmico diventa così importante da generare autonomi, e abbastanza strani, film che presento nel normale circuito dei festival cinematografici o nel mondo dell’arte. Il prossimo appuntamento è per il 14 novembre a Napoli dove presenterò il film Dust quale contributo alla Quadriennale 2003-2005. Resta il fatto che il rapporto alla pari tra cinema e musica è un problema non da poco e che ogni volta obbliga a scelte gerarchiche tra i linguaggi».

Progetti in corso?

«Oltre al già citato lavoro per la WDR (che vedrà la partecipazione di un quartetto d’archi insieme a sampler e elettronica) sono ora a Marsiglia dove sto preparando due progetti distinti: il primo è Kolot un pezzo di teatro-musica (da testi del rabbino e filosofo Marc-Alain Ouaknin) basato sull’esplorazione della locale comunità ebraica e creato insieme al chitarrista / improvvisatore Jean-Marc Montera; Kolot verrà presentato in primavera. Il secondo è lo spettacolo Cosmologie creato con la scrittrice Colette Tron. Abbiamo già presentato nel 2003 un primo allestimento completamente al buio con una distribuzione del suono multicanale (realizzata grazie alle tecnologie di spazializzazione sviluppate al GMEM di Marsiglia). Ora si realizzerà anche la parte visiva/scenica che sarà molto legata alla robotica e all’automazione. Con Paolo Rosa e Studio Azzurro creeremo una nuova installazione interattiva suono/video a Bolzano all’interno del progetto en:trance (una riflessione pluriennale sulla trance su cui stiamo lavorando con anomos.org di Parigi). Se arrivano i visti in tempo sarò a San Pietroburgo per un nuovo festival di elettronica e immagine insieme a Jacob Kirkegaard (Touch) e Guy-Marc Hinant (Sub Rosa). Proseguirà durante tutto il 2004 una investigazione a partire da testi di Antonio Gramsci, Giacomo Leopardi e Pier Paolo Pasolini. All’interno di questo un progetto noise con Olga Neuwirth – elettroniche varie insieme a clarinetti bassi e clarinetti contrabbassi – e in autunno a Copenhagen Schwarzfilm, sorta di film noir scenico scritto insieme a Luca Ruzza con la partecipazione della performer e compositrice norvegese Maja Ratkje (un suo pezzo è stato recentemente pubblicato dalla ECM). Sono previste presentazioni dello spettacolo Animalie (legato a un testo del filosofo Giorgio Agamben) e per l’occasione Cult Network Italia – il canale culturale di Sky – realizzerà un making of della presentazione romana il 19 e 20 dicembre prossimi al Teatro Ateneo/Teatro Vascello con riprese effettuate tra Rimini e Roma. Sto lavorando a un piccolo libro – con contributi di più autori – dedicato al rapporto tra Deleuze e la musica elettronica che sarà pubblicato dalle Edizioni Cronopio. Last but not least una serie progetti particolari con dei workshop realizzati tra Accademia di Brera a Milano, Interaction Design Institute di Ivrea, IEM Institut für Elektronische Musik und Akustik di Graz, Accademia di Belle Arti di Rimini (dove vorrei costruire un Media Lab e creare una serie di progetti sul webcasting con Radio Lada). In questi luoghi si lavorerà su progetti molto concreti per la realizzazione di installazioni suono/video, performance, net projects, DVD e CD».

novembre 2003 © altremusiche.it / Michele Coralli

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