Massimo Falascone – L’uomo Mumacs [intervista]

Foto: Gianni Grossi
Michele Coralli
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Raramente il curriculum di un musicista ci dice qualcosa che va oltre ai consueti percorsi professionali. La scheda biografica che Massimo Falascone ha scritto è a tal punto rivelatrice della simpatia del personaggio da indurci a riportane qui un breve estratto: «Nasce a Milano in un tranquillo giorno d’inverno. Da un’altra parte nel mondo, Glenn Gould pubblica le Variazioni Goldberg, Thelonious Monk sta per registrare Brilliant Corners, John Cage compone Radio Music. Presto Ornette Coleman perderà il suo impiego di fattorino d’ascensore in un grande magazzino. Suona il suo sassofono di plastica già da due anni e ne mancano ancora quattro a Free Jazz». Siamo ovviamente nel 1956 e questo spaccato dice già molto di questa figura che racchiude in sé molti ruoli del musicista moderno, orientato da una curiosità che lo spinge verso percorsi eterodossi non per vezzo, ma per attitudine. Una pronuncia strumentale che eredita, attualizzandoli, stilemi formali cari alle avanguardie del passato, un pensiero musicale che non teme relazioni con strutture aperte e materiali extra-musicali, una contiguità con l’organizzazione e la dimensionalità della musica elettronica. Sono alcune delle caratteristiche del sassofonista milanese che cavalca le scene dell’altro jazz da più di trent’anni.

Vorrei pungolarti con questa domanda: il tuo ultimo progetto, Variazioni Mumacs, è jazz?

Potrei rispondere con la parola “mu” che non significa no, ma neanche sì. Ovvero no e sì allo stesso tempo.

Pensavo che “Mu” potesse riferirsi anche a Don Cherry.

Direi di no, anche se quel riferimento rimane, se non altro a livello subliminale. La parola “mumacs” – una specie di nick name che mi sono scelto per i miei progetti in solo – ha in sé un significato particolare che spiega questa musica che è un po’ jazz e un po’ no, un po’ composizione e un po’ improvvisazione. Ci sono tutte queste cose, ma non è né l’una né l’altra, o meglio, non è una cosa soltanto.

Il lavoro si richiama a Glenn Gould. Ci vuoi spiegare questa relazione?

Se penso alle Variazioni Goldberg mi vengono in mente Gould e il film che è stato fatto su di lui, che era a sua volta costruito sulla struttura delle Variazioni. Quindi sono partito da lì e dall’analisi dell’ascolto. In molte delle mie cose c’è più di un riferimento all’aspetto cinematografico e visivo, dato che sono sempre stato un appassionato di cinema.

Però, se uno ascolta questo disco, non trova Bach!

No, non trova Bach e nemmeno Gould, a parte una piccola citazione presa da una sua intervista. Chi ascolta trova invece un percorso nuovo che si è sviluppato in modo del tutto autonomo. Ho preso certe suggestioni e le ho legate ai punti in cui si ritrovano i 32 piccoli pezzi di Gould. Ho quindi optato per una serie di idee, spunti e immagini su cui ho costruito i miei 32 pezzi. Le stesse suggestioni le ho fatte presenti ai musicisti a cui ho chiesto di partecipare.

Ce ne vuoi citare alcuni?

Innanzitutto c’è Bob Marsh, un amico e grandissimo musicista di San Francisco, che mi ha mandato tanto materiale. La mia procedura è stata questa: quando è stato possibile abbiamo registrato insieme agli altri. Quando non lo è stato – come nel caso di Bob – mi hanno mandato delle registrazioni fatte sulle indicazioni specifiche che io avevo dato. Chi ne avesse avuto voglia poteva mandarmi anche delle voci. Mi serviva della parola perché, in certi punti, quello che mi interessava era inserire delle voci parlate, magari più lingue diverse che parlavano insieme contemporaneamente. Bob non solo mi ha mandato una sua immaginaria intervista, ma ha anche scritto una specie di poesia che io ho distribuito nell’arco di questa struttura, oltre che a diverse parti per violino e violoncello. Poi abbiamo gli italiani come Nino Locatelli, Alberto Braida, Marcello Magliocchi, e il bassista americano John Hughes che vive ad Amburgo, con il quale ho un ottimo rapporto di collaborazione.

C’è molta elettronica e un grande lavoro di montaggio.

Come dicevo si tratta di un progetto compositivo, improvvisativo, acustico ma anche elettro-acustico, nel senso che ho usato dei live electronics, ma non solo. Ho una configurazione di aggeggi elettronici che uso anche in concerto e che ho predisposto in modo da poter usare anche dal punto di vista improvvisativo. Cioè butto dentro fonti sonore, ovvero oggetti che poi posso manipolare con un touch delle dita e quindi improvvisare in tempo reale. Possono essere un synth esterno, piuttosto che suoni campionati o frammenti di registrazioni. Ho preparato su iPad delle playlist di suoni, di rumori e di frammenti di miei vecchi dischi, che poi inserisco in questo multi-effetto, elaborandoli e trasformandoli dal vivo. Se parlassimo di queste cose con un elettronico puro, le considererebbe sicuramente di basso livello, lo-fi (ride). In concerto non uso il computer perché al momento preferisco avere il contatto con gli oggetti e improvvisare così. Ovviamente, per quanto riguarda questo progetto, l’intera sequenza è stata costruita in una composizione fatta a computer. Tra le cose che ho inserito ci sono anche dei fields recordings e delle improvvisazioni con questi aggeggi di cui ho appena parlato.

Pratiche di questo tipo sono molto diffuse nelle musiche di ambito elettronico. Pensiamo al glitch, ma potremmo andare anche molto più indietro. Secondo te perché nel jazz c’è sempre timore nei confronti della manipolazione elettronica?

Per quello che si intende comunemente per jazz sicuramente sì. Mi sembra che un aspetto più jazzistico dell’uso dell’elettronica sia quello del trattamento del suono dello strumento acustico. Cioè l’uso della trasformazione e dell’elaborazione del proprio suono. Mi sembra che il musicista più orientato al jazz se pensa all’elettronica lo fa in un contesto simile a questo: suono uno strumento e lo trasformo con l’aiuto di un musicista elettronico che me lo manipola in tempo reale. Anche io ho fatto delle cose simili con Matteo Pennese. Quindi forse, più che all’ambiente jazzistico, l’elettronica rimanda all’ambiente dell’improvvisazione dove è molto più diffusa. Lì infatti diventa uno strumento attraverso cui poter improvvisare e non semplicemente trattare i suoni.

In quel giro c’è anche un ampio uso dell’elettronica vintage.

Sì, ad esempio di circuit bending, l’uso cioè di microfoni a contatto su vari oggettini. Un lo-fi molto interessante perché puoi costruirti una tua tavolozza di colori musicali e poi giocarci sopra.

Un musicista che lavora su questo in modo intelligente è l’inglese John Butcher.

Certo, ho in mente un disco in solo in cui fa delle sovraincisioni, trattandole poi elettronicamente. Lui collabora molto con musicisti vicini al mondo dell’elettronica. È quel giro europeo di improvvisazione radicale, a volte anche un po’ tanto radicale.

Pur non facendo spesso ricorso ai classici, ricordo una tua ripresa di Ericka di Roscoe Mitchell.

Sì, lui è uno dei personaggi a cui mi sento più vicino: per lo strumento che suona, per la testa e per quello che ha sempre fatto. Ha una liricità molto strana, in un certo senso borderline. Ma il suo non è un voler essere contro le regole e questo vale anche per me, anche perché non so quali regole possano esserci oggi, dato che possono esserci regole condivise da qualcuno e non considerate minimamente da altri.

Pensi che le giovani generazioni dei musicisti di oggi subiscano l’omologazione o quanto meno il conformismo?

A queste domande non so dare una risposta. In questi anni esiste un delirio di comunicazione che si crea attraverso internet, che è sicuramente una ricchezza. Questa possibilità infinita paradossalmente porta a un difetto di conoscenza. Da una parte c’è la possibilità di arrivare a tutto, poi però si ignorano molte cose fatte non molti anni fa. Se certi gruppi non girano e se sono poche le possibilità di suonare per questi guru della musica improvvisata e per i loro più giovani compagni di giochi, diventa difficile essere ricordati. Uno che non sa che è mai esistito Peter Kowald non può andare a cercarlo in internet, deve per forza avere altre fonti.

Sono le scelte di un sistema culturale che tiene buone alcune cose a scapito di altre.

Sì, certo! Più o meno volontariamente. In Italia ancora di più, visto che la maggior parte dei libri pubblicati non vengono tradotti. Sarebbe bello anche che chi si occupa di storia della musica nelle scuole dedicasse più spazio a queste cose. La cattedra di jazz in Conservatorio copre nella didattica musicale una nicchia e la musica dagli anni ’60 in poi viene considerata ancora più una nicchia. Rimangono quindi poche possibilità per un ragazzo di 18 o 20 anni di conoscere questi mondi.

Porterai in giro queste Variazioni Mumacs?
È un progetto difficilmente riproducibile dal vivo, così come l’ho pensato. Abitualmente faccio concerti in solo con due diverse configurazioni: una acustica e l’altra elettroacustica. Al momento sto elaborando una proposta di duetti e trii in varie combinazioni elettroacustiche con alcuni dei musicisti presenti nel cd e non solo.

Intervista in parte apparsa su «Musica Jazz» n763, giugno 2014 © Michele Coralli


Massimo Falscone: «Variazioni Mumacs – 32 short mu-pieces about macs” Public Eyesore PECD126, distr. Mumacs Studio Milano

Massimo Falscone: «Variazioni Mumacs – 32 short mu-pieces about macs”
Massimo Falascone (alto e bar., live el., field recordings, voc.), Bob Marsh (vl., v.lo, voc.), Eugène e Lidia Darredeau (voc.), Alberto Braida (p.), Giancarlo Locatelli (cl.), John Hughes (cb.) Emanuele Segre (ch.), Leonardo Falascone (ch.), Marcello Magliocchi (perc.), Filippo Monico e Fabrizio Spera (batt.). 2011-12.

L’impalcatura di questo progetto si erge a partire da un agglomerato di suggestioni indotte dalle Variazioni Goldberg, celebre composizione bachiana per clavicembalo. Il pianista canadese Glenn Gould ne ha fatto due altrettanto celebri incisioni nel ’56 e nell’82. Il mito di un artista libero di prendere decisioni anche “scandalose” come manipolare le registrazioni nasce da qui. È su questo assunto che Falascone costruisce un affascinante patchwork sonoro che monta ad arte un set molto variegato di parti suonate (composte e improvvisate), di field recordings e rumori. Ne scaturisce uno dei lavori più suggestivi e intimamente moderni del musicista.

da «Musica Jazz» n762, maggio 2012 © Michele Coralli

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