Giovanni Venosta: Musica, cinema e altre manipolazioni [intervista]

Michele Coralli
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Alla vigilia della conclusione del Festival di Berlino del febbraio 2002, dove l’ultimo film di Silvio Soldini, Brucio nel vento era candidato come miglior film, abbiamo incontrato Giovanni Venosta, musicista dedito alla composizione manipolatoria, da tempo al fianco del regista milanese nella produzione delle colonne sonore dei suoi film. Con lui abbiamo parlato del suo lavoro di musicista al servizio del cinema, dei suoi metodi di composizione e della diafana pellicola tratta dal romanzo Ieri di Agota Kristof.

Quando hai iniziato ad occuparti di colonne sonore?

«Sono sempre stato un cinefilo scatenato. Andavo sempre l’Obraz Cinestudio di Milano e le frequentazioni cinematografiche mi hanno portato con il tempo a conoscere diversi personaggi. La combinazione volle che un mio amico, Giorgio Garini, diventò aiuto regista di Soldini. All’epoca stava girando uno dei suoi primi film (ne aveva già fatti due, Paesaggio con figure e Giulia in ottobre, ma non erano usciti nelle sale). Così mi ha messo alla prova con L’aria serena dell’Ovest. Da lì è iniziata la nostra collaborazione. Poi dalle recensioni dei miei dischi con Roberto Musci leggevo che molti consideravano la nostra musica molto adatta alle immagini. In effetti mi sembrava di avere un immaginario musicale appropriato per il cinema».

Soldini ti conosceva già come musicista?

«No. Precedentemente aveva un musicista di cui forse non era soddisfatto. Per L’aria serena dell’Ovest, essendo un film minimale, gli serviva qualcosa di dosato. Così ho utilizzato un linguaggio minimale per rimanere nell’atmosfera. Verso la metà degli anni ‘90 i film di Soldini hanno incominciato a girare, così mi hanno chiamato anche altri registi. Intanto continuavo a lavorare anche per la danza e per teatro, e a fare dischi».

E come sei entrato in contatto con l’inglese Recommended Records, l’etichetta di Chris Cutler?

«Avevo fatto con Musci un lavoro, Water Messages on Desert Sand, e con il master siamo andati a una conferenza sull’uso dello studio di registrazione come strumento musicale, a cui partecipava Cutler invitato da Franco Fabbri. Cutler, allora da antesignano, incominciava a interessarsi di campionamenti. Gli abbiamo dato il master e da quel momento, insieme a Musci e Massimo Mariani, abbiamo stampato quattro dischi con ReR e uno con Victo».

Non avete suonato molto da vivo però.

«Quel tipo di musica non è facilmente eseguibile dal vivo. Ci hanno invitato in diversi festival, ma è troppo complicato pensare di riassemblare ogni brano, che utilizza timbri differenti a seconda dei campioni usati. Sarebbero necessari trenta o quaranta musicisti per eseguire tutti i pezzi e questo è improponibile per le spese. Mi hanno chiesto di riarrangiare tutto per un ensemble, ma non mi interessa fare un concerto dal vivo sacrificando la giustapposizione tra strumenti e campioni».

Per tornare al cinema, il tuo approccio alla composizione di musica da film si può definire in buona parte empirico.

«Sì, anche perché non ci sono delle scuole in Italia. È stato empirico perché attraverso la passione e l’attenzione ho cominciato a capire cosa si poteva fare. Il caso mi ha posto davanti a un regista che in un film prevede una presenza della musica molto ridotta, quasi assente. Io, da cinefilo, ne ero perfettamente conscio. Anzi a volte sono stato io a suggerirgli di non mettere musica in determinate scene, cercando di interpretare il suo linguaggio, che è sempre molto asciutto. Un buon autore di colonne sonore dovrebbe interagire continuamente con il regista, per capire se occorre o meno avere spazio per sottolineare certe situazioni. Non si devono fare affermazioni di sé attraverso la propria musica. La difficoltà è semmai mantenere un tocco personale, in modo che venga riconosciuto un linguaggio comune tra film di registi diversi».

E pensi di essere riconoscibile come autore di colonne sonore?

«Penso di sì. Se si ascoltano le mie colonne sonore, anche se hanno colori diversi, credo che si possano riconoscere per lo stesso stile».

Che metodo di lavoro c’è tra te e Soldini?

«Come con quasi tutti i registi, che sono dei normali fruitori di musica. La cosa difficile è intendersi su una sorta di codice per intrattenere un dialogo. La mia tecnica consiste nel far sentire a Silvio altre cose, non mie, tanto per prospettargli alcune possibilità. Così lui può dire se vuole qualcosa di simile o diverso da quello che gli ho fatto sentire. Ed è molto meglio che parlarsi in astratto. Nel caso di Brucio nel vento, in cui è stata scelta la viola come strumento solista, a Soldini interessava uno strumento che non fosse troppo stridente: né zigano come potrebbe essere il violino, né troppo romantico come il violoncello. Sulla base degli ascolti abbiamo stabilito di usare uno strumento ad arco che fosse un po’ spigoloso, un po’ scomodo. Infatti non risultano belle tutte le note della viola, che non ha una fluidità di registro e che, per questo motivo, viene usata raramente come strumento solista. Siccome il personaggio di questo film è scomodo e tormentato, a me sembrava che il colore di questo strumento lo potesse ben rappresentare».

In particolare per questo film cosa gli avevi fatto sentire?

«Beh in questo caso non è stato particolarmente facile. Lui aveva visto In the Mood for Love e gli era piaciuto come la musica era stata trattata attraverso la ripetitività di un tema molto riconoscibile. Gli ho spiegato che Wong Kar-Wai in quel film non ha preso un tema e l’ha sviluppato, ma lo stesso tema lo ha ripetuto: una volta lo sentiamo nei suoi primi dieci secondi, la seconda i primi quindici, venti, trenta, eccetera. A me non interessava fare la stessa cosa. Gli ho allora proposto di sviluppare una cellula tematica, come quella che abbiamo studiato, che potesse avere le caratteristiche di certa musica classica slava del secolo scorso, nei modi di Janácek o Smetana. Non doveva essere però troppo classicheggiante, ma capace di modulare, con un inizio molto forte dal punto di vista tematico. Doveva anche poter cambiare a seconda delle esigenze. Per la prima parte il film, che è più vicina al romanzo Ieri ho composto una suite che si intitola Hier Suite, mentre lo sviluppo di questi frammenti si chiamano Brucio nel vento e si sentono in seguito. Il procedimento è stato questo: le melodie che interessavano venivano estrapolate dalla suite per poi essere sviluppate».

Che organico hai utilizzato accanto alla viola?

«Nella suite un’orchestra d’archi. Poi sullo stesso organico viene inserita una chitarra elettrica, il cui suono varia da un timbro simile un’arpa a quello di una chitarra elettrica tradizionale, che fa sentire l’attacco del plettro sulle corde, qualcosa di scoppiettante, più “Brucio nel vento” appunto. Tra le variazioni ho inserito anche una voce bulgara, che è quella di una giovane zingara di Sofia. Nel corso del film, assieme ai timbri cambia anche il ritmo. Gli archi cominciano a spezzettarsi, suonando su un pizzicato non omoritmico su fasce che diventano progressivamente sincopate».

Un tipo di trattamento di derivazione quasi minimalista. Non ti pare?

«Tendenzialmente sì. Anche se è un minimalismo un po’ strano. Non mi fermo mai su uno stile solo. C’è un po’ di minimalismo, ma c’è anche un po’ di rock, il jazz e altri generi».

Mi riferivo proprio a quella procedura di sfasamento delle parti.

«Sì. In qualche maniera, anche se procedimenti del genere sono comuni anche ai vecchissimi sistemi di variazione. Sono stati i minimalisti a richiamare quel tipo di variazione e anche per questo si parla di una musica “neoclassica”. Del resto nella musica da film ce lo sogniamo di fare musica sperimentale. In Brucio nel vento c’è un brano di musica cacofonica ottenuta da trattamenti elettronici per la scena in cui il protagonista ha un incubo: ci sono tre pianoforti sovrapposti con frammenti di tema che diventano astratti e confusi. Ma è un espediente relativo a un effetto».

Ci sono altre manipolazioni elettroniche nel film o sono procedure che usi più in altri contesti?

«In genere lavoro molto con hard disk recording con cui puoi tagliare, cucire, invertire, sovrapporre. Ho sperimentato questa tecnica soprattutto nell’ultimo lavoro assieme a Mariani, Metamorphoses / Electronic Adventures in Flamenco, in cui abbiamo preso una chitarra flamenco e l’abbiamo fatta improvvisare per poi manipolarla attraverso l’hard disk recording. Durante quell’esperienza abbiamo sviluppato molto le capacità elettroacustiche dell’informatica. Quando si tratta di superare dei problemi di tipo espressivo questa procedura può essere utilizzata con ottimi risultati. In certi casi diventa come un montaggio cinematografico. Analogamente a quanto avviene con gli attori a cui si fanno fare, a volte quasi astrattamente, delle scene a compartimenti stagni, che, a seconda della lavorazione, possono anche non essere collegate tra loro, così capita nell’organizzazione del lavoro musicale. Ne Le acrobate avevo fatto improvvisare a vari musicisti, tra cui una violinista classica e un batterista jazz, alcuni pezzi i cui i frammenti registrati venivano poi montati come volevo, trasformando una serie di improvvisazioni in un pezzo che sembrava scritto nota per nota. In Brucio nel vento la musica è più diretta, più scritta. Si tratta di un film più “classico”, quindi anche la stesura della colonna sonora è più tradizionale. Dalla partitura scritta per tutto l’ensemble ho scorporato alcune parti, per avere il dettaglio di gruppi più piccoli. Quando si tolgono alcune tracce sta a me ritagliare e ricucire dei momenti che necessitano di alcuni ritocchi. Ad esempio, per smussare alcune spigolosità si può togliere una nota. Ma questa è l’unica procedura di montaggio che ho usato in questo caso».

Come sei riuscito dirigere l’improvvisazione dei musicisti nella registrazione de Le acrobate?

«Ho iniziavo con la cantante che eseguiva una linea che avevo scritto precedentemente. Poi è arriva la violinista classica, che non aveva mai improvvisato in vita sua. Le ho fatto sentire quello che avevo registrato e le ho domandato cosa potesse suggerirle. Essendo in difficoltà, le ricantavo quello che mi interessava tra le melodie che aveva appena improvvisato. Poi le suggerivo come la cosa avrebbe potuto andare avanti. Lei le suonave di nuovo e insieme abbiamo costruito la parte. A questo punto avevamo due linee pronte. Al percussionista ho fatto sentire tutto e gli ho chiesto di seguire le due melodie. Io sentivo una pulsazione, ma non sapevo se era la stessa anche per lui. Ovviamente non si parla di ritmi precisi, ma di respiri da seguire. Campionando frammenti di musica etnica mi sono abituato a seguire certi respiri, certe circolarità che provenivano da musicisti etnici che non suonano con il metronomo. Ho cercato di trasfondere questa sensazione anche in musicisti che non sono abituati a fare questi procedimenti. Anche il musicista di jazz magari non è abituato a essere melodico, ma a seguire un ritmo. Quella melodia era un po’ folk, non volevo quindi che lui uscisse da quel mondo, facendo magari dello swing. In questo tipo di esperienze bisogna trovare il giusto equilibrio tra il limitare e il dare spazio. Sicuramente la colonna sonora de Le acrobate rimane la cosa più sperimentale che ho fatto».

Molti musicisti classici sono in imbarazzo di fronte all’improvvisazione.

«Sì, sono nel panico senza partitura. Lavoro spesso con Silvia Mandolini, che è una violinista canadese eccezionale. Lei ama moltissimo la musica contemporanea e quando la metto di fronte a queste esperienze si lascia andare. Non sente più la mancanza di una partitura in cui è annotato tutto ciò che deve suonare. Al contrario quando chiamo dei jazzisti, mi piace fargli eseguire delle partiture scritte nota per nota».

Cos’è che distingue la lavorazione di un film da quella, per esempio, di un disco?

«Nel cinema in genere si ha pochissimo tempo. Le parti sono assegnate due o tre giorni prima di andare in studio e si deve tener buona la seconda o la terza registrazione. Non si può perdere tempo, quindi anche i musicisti devono essere rapidi, devono capire immediatamente quello che stai pensando. Non siamo i Beatles che stanno un anno in sala di incisione. È strano se si pensa a tutti i soldi che ci sono nel cinema. Non si capisce come mai film costati miliardi prevedano sempre un budget limitato per la colonna sonora originale, che invece è un elemento fondamentale. Non dimentichiamo che il compositore è uno degli ultimi nomi dei titoli di testa e uno dei quattro o cinque personaggi importanti dello staff tecnico, assieme ai vari montatori. Il budget dato alla musica è ridicolo rispetto alla produzione generale. Non amo molto l’uso massiccio e roboante della musica nei film americani, ma conosco i budget con cui lavorano quei compositori e quali enormi possibilità di movimento hanno all’interno di questi budget. Noi invece siamo sempre in una perenne rincorsa contro il tempo. Nella colonna sonora de Il gladiatore è stato fatto un investimento miliardario nella musica. Il compositore così può demandare ai suoi collaboratori aspetti di carattere produttivo, esattamente come fa il regista».

Che effetto ti fa risentire la tua musica durante la proiezione del film in sala?

«Dopo tutto il lavoro rivedere il film è uno shock. Capisci che la tua musica è stata totalmente compressa, tagliata o dilatata. Il musicista fa fatica a riconoscersi in questi “buchi” in cui, durante un film, viene lasciato spazio alla sua musica. Ormai con un po’ di esperienza in più, quando vado a vedere l’anteprima cerco di mantenere un assoluto distacco, altrimenti mi sento impotente. Immagino che sia una sensazione analoga a quella che possono avere gli attori».

Che aspettative riponi sul Festival di Berlino?

«Essendo Pane e tulipani il film italiano che ha realizzato più incassi in Germania con ben 15 miliardi – ancora più che Italia –, in teoria Soldini è uno dei possibili vincitori dell’Orso d’oro. Bisognerà vedere se la giuria berlinese apprezzerà anche la sua trasposizione, se piacerà ad esempio il finale che è stato variato. Io continuo a pensare che sia un film mitteleuropeo e poco italiano. Non a caso non c’è nessun italiano nel cast artistico».

E dove è stato girato?

«In Svizzera francese, vicino a Neuchâtel e in Repubblica Ceca, con attori cechi e svizzeri. Le lingue del film sono il francese e il ceco. Quella che noi vediamo in sala è una versione doppiata».

L’Orso d’oro sarebbe un riconoscimento internazionale importante per Soldini.

«Sì, lui ha sempre avuto premi correlati, come il Leone d’oro alla protagonista di Un’anima divisa in due o i nove David di Donatello per Pane e tulipani, il Ciak d’oro l’anno scorso. Ma mai un premio in un festival, anche perché è difficilissimo entrarci. Tanto per fare un esempio, a Cannes i film di Soldini non sono mai riusciti ad entrare in concorso».

[E putroppo l’Orso d’oro 2002 ha ricevuto altre assegnazioni. Sarà per un’altra volta…]

febbraio 2002 © altremusiche.it / Michele Coralli

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