Gianni Gebbia: miniature improvvisate [intervista]

Michele Coralli
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Jazzista autodidatta, oltre che pittore e appassionato di grafica, il palermitano Gianni Gebbia (sax alto e sopranino in mi bemolle) gode ormai da una quindicina d’anni di una consolidata reputazione nel mondo della musica improvvisata. Tra le esperienze che lo hanno influenzato, ama ricordare Rock in Opposition, il nuovo folk, ma anche il jazz di Ornette Coleman e la no wave newyorkese degli anni ’80. Assieme a Steve Lacy e Lindsay Cooper ha preso parte all’edizione del Total Music Meeting del 1990, a cui hanno fatto seguito numerose altre collaborazioni, come con Heiner Goebbels, David Moss, Jim O’Rourke, Louis Sclavis, Evan Parker, Henri Kaiser e tanti altri.Abbiamo raggiunto Gianni, mentre si trovava a Parigi assieme a Fred Frith.

Bene partiamo da qui. Cosa ci fai a Parigi con Fred Frith?

«Mi trovo qui per la creazione di Setaccio, una pièce di Fred Frith e Francois Chat, un giovane giocoliere e regista francese. La pièce consiste in una composizione per quartetto d’archi, campionatore e sax (sopranino e contralto), in veste di improvvisatore e non. La mia funzione è delicata e difficile, in quanto spesso e volentieri faccio di tutto per contrastare il lavoro del quartetto d’archi, assecondando la concezione di Fred Frith secondo il quale ‘dove c’è pericolo si sviluppano situazioni musicali interessanti’. Lo spettacolo avverrà al Theatre du Chatelet dall’ 8 al 17 novembre. Speriamo di poterlo portare anche in Italia, nonostante mi sembri difficile».

Torniamo un po’ indietro nella tua storia. Quando hai iniziato a suonare e quando ti sei avvicinato in maniera definitiva all’improvvisazione?

«Ho cominciato a suonare attorno al 1979 formando una band di pop progressive assieme ai miei compagni di scuola ispirata ai Gong e ai King Cirmson. Sempre in quel periodo assistetti all’illuminante concerto dei mitici Henry Cow, nei quali figuravano due artisti con i quali non mi sarei mai immaginato di collaborare in seguito: Fred Frith e Lindsay Cooper. Contemporaneamente mi sono avvicinato al jazz, comprando moltissimi dischi, dal bop al free, e frequentando l’ormai lo splendido jazz club del Brass di Palermo, ormai scomparso, nel quale si poteva assistere settimanalmente al meglio del jazz: da Ornette a Mingus, il tutto in club ad un metro di distanza! Di lì a poco mi ritrovai a Firenze, dove c’era un’appendice del mitico Festival di Pisa, nel quale assistetti alle esibizioni di Milford Graves e Leo Smith, entrambi in solo, e all’orchestra di Sun Ra».

Attraverso quali canali hai cercato di entrare in contatto con le realtà improvvisative e sperimentali europee?

«È una domanda alla quale è difficile rispondere, perché lo stile o la propria modalità espressiva è qualcosa che si va sempre evolvendo e non nasce mai bell’è pronta. Così, di pari passo, vanno i contatti e le esperienze concertistiche. Di sicuro posso ricordare, come momento topico, l’incontro con Peter Kowald e Günter Sommer e dei concerti fatti con loro. Ma anche l’invito ricevuto dal Total Music Meeting di Berlino in solo (cosa per me allora pazzesca, ma che, da quel momento, è andata diventando la mia specialità!) In generale posso dire che, man a mano che il mio linguaggio andava e va evolvendosi, ho mandato delle registrazioni in giro, ecc.ecc. Spesso però, in questo tipo di musica, ci si ritrova spesso e volentieri al punto di partenza, perché si tratta certo di un tipo di musica che piace al mercato ed all’industria culturale!».

Da parte mia devo dire che mi piace anche la cura che dedichi alla grafica dei tuoi cd. In effetti in ambiti più “undeground” è rara l’attenzione per la grafica e la confezione, Brötzmann a parte naturalmente.

«Anche se questo può stupire, in effetti ho cominciato come artista visivo, facendo quadri e numerose mostre. Ho sempre disegnato e dipinto, sin da bambino ma, successivamente, sono approdato alla musica, che per me è una specie di continuazione della precedente attività. Oggi i miei interessi di questo tipo ritornano sotto forme di copertine, bozzetti ed di recente sotto forma anche di installazione ed immagini varie, come, ad esempio, in Arcana Maior. Questo cd infatti è solo una parte di un lavoro più complesso, che include immagini dei tarocchi e miei disegni ispirati da questi archetipi. Comunque è una cosa difficile da spiegare così, su due piedi. Vorrei dire che proprio nel momento attuale l’interesse verso la componente visiva è ritornato nei miei lavori».

Tanto per fare qualche nome, a quali artisti ti senti più legato?

«Sono certo tantissimi e spesso questi amori variano a secondo i periodi: i primi che mi vengono in mente sono Rahsaan Roland Kirk, Ornette, Julius Hemphill, Arthur Blythe, Peter Kowald, Han Bennink, Günter Sommer, almeno in questo campo. Ma c’è anche tanta musica etnica, brasiliana classica e contemporanea, Kagel ad esempio».

La dimensione epigrammatica sembra essere quella ideale per te, penso ad un disco come Arcana Major, a mio parere uno dei progetti più coinvolgenti per sassofono solo improvvisato degli ultimi anni. Come hai maturato il gusto per la miniatura?

«Sì, debbo dire che la miniatura, l’essenzialità si confanno molto alla mia espressione per molti motivi, sia di ordine estetico che di ordine pratico. Da un lato non apprezzo molto in questo tipo di musica le forme massimaliste o sinfoniche etc. e considero invece molto importante il lato epigrammatico, minore nel senso deleuziano e anche effimero, come direbbe Joêlle Leandre di questa musica. In un senso più esistenziale, c’è anche da considerare il fatto che, venendo dalla Sicilia, che è una terra di confine dove sicuramente non abbondano i musicisti, mi sono trovato a esplorare particolarmente la forma solistica, solipsistica. Last but not least, da anni sono un praticante di tiro con l’arco e di meditazione zen e, come si può intuire, queste arti hanno molto a che fare con la miniatura e l’essenzialità, sotto forma di semplicità dei gesti, calligrafia haiku, eccetera. Sicuramente mi hanno influenzato molto nel gusto della miniatura anche il collage e la pittura».

Il tuo lavoro più recente è pronto! con Xavier Garcia e Nils Wogram. Come è nato il progetto? Soprattutto dove sono avvenute le registrazioni?

«Sono molto contento di sapere che la notizia di questo lavoro è giunta! Non lo dico mai, ma è davvero un bel disco! In più è nato in circostanze alquanto casuali e bizzarre. Il Goethe Institut e l’Istituto Culturale Francese di Palermo dovevano inaugurare le rispettive nuove sedi e, tra le tante cose, hanno deciso di organizzare un evento dedicato alla musica di ricerca. Così mi hanno invitato ed io ho proposto Xavier Garcia, di cui ero rimasto affascinato. Il Goethe ha proposto invece Nils Wogram. Così ci siamo ritrovati a fare una session di improvvisazione nel bel mezzo di quella è diventata una festa, una situazione abbastanza impossibile per fare ciò che ci eravamo riproposti. Il giorno dopo, per supplire allo sconforto, ho portato tutti i musicisti in studio ed è uscita questa seduta incredibile. Patrick Landolt dell’Intakt, appena ha ascoltato il materiale, mi ha chiamato per dirmi che doveva assolutamente stampare questo disco. Lo stesso mi ha detto subito dopo Bert Noglik, uno dei più grandi esperti di free music. Così è nato pronto! e spero davvero di poter suonare in molte occasioni il prossimo anno con questa formazione».

Tu hai lavorato anche con Peter Kowald, che recentemente ci ha lasciato… Che ricordo hai di lui?

«Kowald ed io eravamo amici al di là del semplice fatto musicale ed abbiamo condiviso dei bellissimi momenti assieme. Apprendere la notizia della sua morte è stato uno shock. Ho subito scritto una preghiera per lui che è apparsa sull’ultimo numero di Improjazz e si intitola Sutra per Kowald. Abbiamo inciso anni fa, Cappuccini Klang e ci siamo visti spesso in diverse parti del globo. L’ultima volta l’ho incontrato a Lisbona dove mi trovavo per dei concerti con Nuno Rebelo, Marco Franco ed altri giovani improvvisatori. Peter era lì per suonare con Carlos Bechegas. Essendo libero per qualche giorno, mi ha detto: ‘Ho voglia di suonare’ ed io l’ho subito portato in giro con me, tra lo shock di tutti gli altri giovani musicisti. Sono state delle giornate indimanticabili, come sempre laddove c’era Peter. Per quasi un mese ha abitato a casa mia a Palermo! E io ho fatto lo stesso da lui a Wuppertal. Era un caro amico, un fratello».

novembre 2002 © altremusiche.it / Michele Coralli

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