Soriba Kouyate – Un griot midi [intervista]

Foto: Michele Coralli
Michele Coralli

La realtà della musica africana è tanto vasta quanto lo è il continente la ospita. Musicisti come il griot Soriba Kouyate, discendente di un’antica casta le cui origini risalgono fino al 1200, traggono le proprie conoscenze da un tessuto tradizionale, per muoversi sulla strada di un’evoluzione che vuole accostarsi ai più recenti ritrovati tecnologici, per trasformare quello che noi occidentali siamo abituati a considerare uno strumento etnico “puro” come la kora, in uno strumento moderno, capace di confrontarsi con il mondo digitale.

Naturalmente l’obiettivo di informatizzare la kora è, al momento, soltanto uno dei progetti del senegalese Kouyate, un’idea che però si riserva di sviluppare in futuro. Già perché, al contrario di quanto si può credere, molti dei musicisti africani come Soriba (nato a Dakar nel 1963) preferiscono considerarsi più dei jazzisti, che dei semplici testimoni di una tradizione. Il suo curriculum inizia con gli insegnamenti del padre Mamadou Kouyate, fondatore di una scuola di kora e griot, come lo sono da intere generazioni gli appartenenti alla famiglia Kouyate. Mamadou, musicista ufficiale del presidente del Senegal e ambasciatore della cultura mandinga in tutto il mondo, ha avuto il merito di ampliare gli orizzonti del figlio attraverso la musica di grandi afroamericani come John Coltrane, Miles Davis, Charly Mingus. Viene naturale pensare allora come alcune collaborazioni di Soriba con musicisti come Peter Gabriel, Youssou N’Dour, Salif Keita e Paolo Fresu, nascano, oltre che da un incontro tra culture (che ormai da parecchi anni ormai si sono incontrate e conosciute), ma soprattutto dalla facilità di un comune terreno d’incontro. Alcuni chiamano questo terreno “jazz”, altri “musica dal mondo”, altri ancora, più semplicemente, “musica”.

Durante un’esibizione del musicista senegalese, avvenuta il 27 settembre 2002 presso il Teatro Gobetti di Torino – nell’ambito della rassegna “Identità-Differenza”, ciclo di incontri, seminari, concerti, organizzati attorno al tema dell’interazione e dello scambio culturale – può capitare di ascoltare standards jazz come “Summertime”, “La donna è mobile” di Verdi, così come la cubana “Caimanera” o “Caruso”. Il tutto suonato con la celebre arpa mandinga, strumento diatonico, assolutamente completo, che nelle mani di Kouyate sembra non avere alcun limite culturale, ma, al contrario, possedere quelle qualità necessarie ad attraversare mari e ad abbattere frontiere.

Prima di tutto raccontaci dove e come hai imparato a suonare.

«Discendo da una famiglia di griot. Ho imparato a suonare quando ero molto piccolo. Mio padre, che è stato un grandissimo suonatore di kora, mi ha insegnato quando ero ancora molto piccolo. Lui possedeva una kora molto grande e io ero troppo piccolo per suonarla, così un giorno – avevo circa due anni – decisi di montare su uno sgabello per provare a toccare quello strumento che mi incuriosiva moltissimo. Quando mio padre mi ha visto ha deciso di costruire su misura una piccola kora, perché ha capito che c’era qualcosa nel mio sangue che mi spingeva verso quello strumento. Così ho iniziato a suonare la piccola kora con tanto amore. Perché nella vita è importante amare: quando si ama si può progredire».

Tuo padre è stato un importante musicista nell’ambito della tradizione musicale del tuo paese. Ce ne vuoi parlare?

«Mio padre è stato un griot, come lo era mio nonno e il padre di mio nonno. Questo significa che la nostra famiglia, come quella di altri griot, discende direttamente dall’antichissima generazione di griot del XIII secolo. Tutte le famiglie attuali di griot hanno degli antenati che vivevano nell’antico Impero del Mali (comprendente gli attuali Mali, Guinea e Senegal. NdR). E anche i Kouyate vengono da lì: Sunyatà Keyta, imperatore mandingo e suonatore di balafon, è stato il primo griot dei Kouyate. Molti giovani oggi pensano che, se suoni, allora vuol dire che sei un griot, e se non suoni, allora non lo sei. Ma non è così. Mio fratello, per esempio, non suona la kora; ha fatto la scuola, ma non era in grado di diventare un musicista, così si è messo a costruire le kora, come mio nonno, e non ha mai imparato a suonarle. Sono io che ho iniziato a suonare, appassionandomi a questo lavoro, assieme al mio fratello minore che vive negli Stati Uniti. Da noi non è obbligatorio mettersi a suonare, se discendi da una famiglia di griot, perché la scelta deve essere presa da te stesso. Non deve essere un obbligo. Noi non siamo griot perché suoniamo la kora, ma lo siamo perché i Kouyate sono una famiglia di griot».

Ma quanti griot pensi che ci siano attualmente in Africa?

«Tantissimi. Non solo in Africa, ma nel mondo intero. È difficile dire quanti siano. Se pensi a tutte le famiglie come la mia che sono costituite da griot. Le cose non cambiano anche se qualcuno decide di spostarsi. Ad esempio il mio fratello maggiore è andato a vivere in Francia, lì si è sposato e ha messo su famiglia. Altri miei fratelli sono andati in Burkina Faso e a Londra. Ebbene tutti continuano ad essere dei griot anche nel luogo dove vivono attualmente. E, come i Kouyate, la cosa vale anche per tutte le altre famiglie di griot».

Qual’e la missione di un griot?

«Anticamente lo scopo del griot era quello di trasmettere i messaggi. Lo era allora e lo è anche oggi. Come te, che sei giornalista e scrivi notizie, così anche il griot porta dei messaggi. Prima non era un business, ma il griot aveva il ruolo di consigliere. Nell’antico impero se il re doveva prendere una decisione allora si consigliava con il griot che, era stimato per la sua capacità di parlare e di esprimere le cose con saggezza. Ecco allora la differenza tra i diversi griot: ci sono infatti griot che non suonano assolutamente, ma che parlano. L’effetto di parlare e di portare un messaggio fa bene a chi lo riceve».

E il griot musicista quali strumenti suona generalmente?

«Differenti. Non è obbligato a suonare degli strumenti particolari. È solo una questione di scelta: si può suonare il balafon o la kora, ma anche altri strumenti. Così come non siamo obbligati a scegliere se suonare o meno, così non siamo obbligati a scegliere degli strumenti piuttosto che altri».

Tu che tipo di musica hai scelto di suonare?

«Io suono la musica del mondo. Non sono un musicista che suona solamente musica africana. Io parlo di musica. Ascolto Miles Davis o John Coltrane, che non sono musica tradizionale, ma è jazz. Io amo la musica nella sua globalità, non voglio rimanere bloccato nella tradizione mandinga solo perché discendo da quella tradizione, perché la musica non ha frontiere».

Tuo padre invece è stato un musicista tradizionale.

«È normale, mio padre è mio padre. Lui ha fatto quella scelta. Inizialmente suonava la tradizione, ma poi mi ha avvicinato anche al jazz e alle altre musiche. La musica non è soltanto un fatto tradizionale».

È stata la tua generazione a determinare un cambiamento nella musica africana attraverso il jazz?

«Dipende. Ogni generazione porta dei cambiamenti e ogni persona dà il suo contributo. Per quanto mi riguarda, oggi io la penso in un determinato modo, ma non posso assolutamente parlare del modo di concepire la musica da parte di altri musicisti. Quando sono a casa mia, ad esempio, non ascolto musica tradizionale, ma R&B, funky, jazz. Anche se attorno a me ci sono tantissime persone che ascoltano la kora o il balafon tradizionale».

Foto: Michele Coralli

Parliamo allora della kora. Quali sono le sue origini?

«Le origini si perdono nel tempo. È uno strumento originario mandingo, ovvero discende da quegli antichi strumenti usati nell’impero del Mali».

Con quali materiali viene costruito?

«La cassa armonica è costituita da una zucca, mentre il manico è in legno e la membrana di pelle di bue. Le corde sono in nylon. Anticamente si usavano come corde i crini di cavallo, successivamente venne adottato il budello. Oggi naturalmente ci sono corde sintetiche in nylon».

 

Quali tipo di accordature sono possibili sulla kora?

«Tutti i tipi di accordatura, dipende dallo stile che uno vuole adottare. Ad esempio la musica tradizionale ha un’infinità di modi, che cambiano a seconda delle regolazioni. Anche la quantità di corde cambia da un suonatore all’altro. Se uno ha bisogno di 35 corde, allora può fare costruire una kora con quel numero di corde. La mia ne ha 21, perché io ho deciso che per il mio stile erano sufficienti. Il discorso è lo stesso per un chitarrista: quali accordature usa? È difficile dirlo, perché ha un’infinità di possibilità. Allora ognuno fa una scelta che dipende dallo stile che uno vuole adottare. Con lo strumento che ho, posso suonare quello che voglio, ma per fare proprio tutto forse occorrerebbe una kora, poniamo, con due manici e 250 corde.

Il mio spirito di sperimentazione mi porta a superare il legame con la kora tradizionale. L’importante oggi è sviluppare le possibilità dello strumento nel proprio modo di suonare. Io suono uno strumento che non è mai uguale a se stesso, perché cerco di sfruttare ogni tipo di accordatura, in base al suono che voglio emettere. Questo può continuamente cambiare nel tempo. Del resto Miles Davis non è stato un trombettista come gli altri, perché ha migliorato la tromba, così come ha fatto Marcus Miller con il basso. Entrambi hanno sviluppato un loro suono, molto personalizzato, rispetto a quello originale. Tutto ciò è frutto di un’evoluzione. La kora che uso oggi mi consente di manovrare le altezze, creando diesis e bemolle, o scale cromatiche, ma non è ancora quello che voglio io, perché a volte nella mia testa sento la necessità di cercare suoni differenti, come, che so, quello di una locomotiva… Ma al momento, la mia kora non me lo consente. Spero, però, che un giorno avrò la possibilità di suonare una kora moderna, una kora midi, con deley, effetti e compressori».

Adesso usi una serie di effetti.

«Sì ma gli effetti non cambiano molto la natura del suono. Non c’è modellazione, come invece potrebbe avvenire con una kora midi».

Con l’uso del midi però si perderebbe il suono naturale della kora.

«Sì, ma bisogna andare avanti. Anche strumenti come il pianoforte, in tutti questi anni, hanno superato il loro suono naturale. Io vorrei fare la stessa cosa con la mia kora».

La kora è un’arpa costituita da un corpo, in genere ricavato da una zucca ricoperta da una membrana di pelle, un manico in legno, come i due sostegni paralleli al manico, e una doppia fila di corde in ordine di registro in nylon, secondo l’uso comune. La kora mandinga (o maliké) più comune possiede 21 corde divise in due ordini, l’uno di fronte all’altro: undici a sinistra, nel registro basso, e dieci a destra. Le corde sono montate sulla parte laterale di un ponte, simile a quello di un violoncello, e sono messe in tensione mediante delle meccaniche, simili a quelle della chitarra, poste lungo il manico. Le accordature diatoniche seguono gli stili della modalità mandinga o di quella occidentale (Kouyate cambia frequentemente le altezze durante la sua esibizione per predisporre accordature aperte, che consentono diverse variazioni di tonalità). Le corde vengono pizzicate da pollice e indice di entrambi le mani, mentre le rimanenti dita sorreggono lo strumento, sia nell’esecuzione in piedi, che seduti. Nelle mani di Kouyate la kora diventa uno strumento molto ricco e versatile, capace di intonare una gamma di sonorità davvero inaspettate, sia dal punto di vista ritmico/percussivo, sia dal punto di vista melodico/contrappuntistico.

da «Strumenti Musicali» n259, dicembre 2002 © altremusiche.it Michele Corallii

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*