XTC, sublimamente pop

Andrea Coralli
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XTC “Nonsuch” (GEFD-24474, Geffen Records 1992)

Fra la stima di pochi e l’indifferenza dei più, il trio inglese degli XTC è giunto a pubblicare il suo decimo lavoro in quindici anni di attività. Il gruppo esordì sulla scena musicale nel 1977, in pieno sommovimento punk. E il punk lascia qualche traccia nell’asprezza del sound degli esordi (il primo lp, White Music, è del 1978), anche se fin dall’allora esso presenta una evidente caratterizzazione pop, termine quest’ultimo da intendere in senso storico. Gli XTC sono infatti andati assumendo sempre più negli anni i connotati di una band sublimanente pop, così sublime da rimanere sprovvisti lungo il cammino di un elemento fondante della stessa etichetta musicale: la popolarità. Fattore quest’ultimo che non ha mai arriso veramente al gruppo, che, pur avendo dalla sua doti apparentemente adatte per aprirsi il varco verso il successo, ha finito col rimanerne sempre al di qua, in una terra di nessuno sospesa fra l’elite della sperimentazione colta e gli squisiti sapori della melodia allo stato puro, centellinata da cultori sparsi in mezzo mondo. Del resto sul piano strettamente stilistico-musicale la band di Swindon (cittadina a ovest di Londra, non lontana da Bristol) viene spesso accostata al prestigioso nome dei Beatles, e non illegittimo sarebbe ascrivere i suoi due songwriter all’albero genealogico dei grandi facitori di canzoni del Regno di Albione, quella che dagli stessi McCartney e Lennon e Ray Davies dei Kinks va fino a Elvis Costello, Paul Weller e, dulcis in fundo, Peter Blegvad, con cui, non a caso, i nostri due hanno collaborato in passato.

Gli XTC devono la notevole carica di fantasia e freschezza di tanta loro produzione alla grande varietà di riferimenti musicali ed extramusicali raccolta, con la maniacalità del collezionista, in ogni loro lavoro, oltre a un’indubbia abilità artigianale nel muoversi in studio di registrazione tra suoni acustici, elettrici ed elettronici, spesso condensati in preparati di rara perfezione.

È il caso anche di questo ultimo Nonsuch, uscito a tre anni di distanza dal precedente Oranges & Lemons. Ancor più del predecessore, il nuovo prodotto evidenzia la deriva pop-rock seguita dal gruppo: ovvero la canzone della tradizione di cui sopra come precipitato di delizie dolciarie, fino ai limiti della stucchevolezza, un McCartney affrontato e superato sul suo stesso terreno di tiepidi languori domestici. Ciò soprattutto su iniziativa di Andy Partidge (“quando McCartney fa certe cose, potrei ucciderlo con un Black & Decker arruginito; poi mi ascolto, e capisco di essere caduto in un abisso del genere”), il più prolifico dei due compositori del gruppo, nonché chitarrista dello stesso. L’altro è il bassista Colin Moulding, autore in genere parco e pregevolissimo, mentre il terzo uomo, Dave Gregory, è un polistrumentista che funge da certosino cesellatore dei suoni del piccolo ensemble. Anche nel nuovo lavoro Moulding si conferma all’altezza della fama, e dei quattro brani composti tre ci paiono davvero superbi. My Bird Performs è costruito su una delicata tessitura di chitarra, in cui si inserisce la batteria e una seconda chitarra riverberata. La voce colpisce nella sua sobrietà, così come, in fase solista o di controcanto, la tromba e il flicorno suonati da Guy Barker. Raramente una canzone esprime felicità e senso di appagamento con tanto garbo e leggerezza. Bungalow è un’altra canzone di stampo idilliaco, con un gusto volutamente demodé e alcune accentuazioni fra il sacro e il fiabesco nel coro, che può anche ricordare quello che chiude il lontano Pawn hearts dei Van der Graaf Generator. “Sono geloso che Bungalow l’abbia scritta lui. Ne compone poche, ma bellissime”: così lo stesso Partridge (in Inventare l’inventato, a cura di Aldo Vitali, intervista che compare su “Live Music”, a. I, n. 2, pp. 36-38). A ben altre situazioni e atmosfere rimanda invece War Dance, che esprime la preoccupazione per il diffondersi di sentimenti nazionalistici e interventisti in occasione della recente Guerra del golfo. Il brano è aperto da un fraseggio di sintetizzatore che emula il clarinetto, adeguato ai timbri gravi che compongono l’intera canzone col contrappunto, specie nel ritornello, di interventi fiatistici più secchi e taglienti.

Non da meno, sul piano qualitativo, è l’apporto di Partridge, il quale firma tredici composizioni. A partire dal brano di apertura, The Ballad of Peter Pumpkinhead, che ci consegna a quell’essenzialità narrativa e musicale che il rock talvolta condivide con la musica popolare; vi troviamo tanto di riff di armonica a bocca, chitarre elettriche “spiegate”, batteria che scandisce canonicamente il tempo in quarti fra charleston, cassa e rullante. Nel puro idioma rock, al min. 3:34, l’arresto in sfumato delle chitarre per lasciare in evidenza il ritmo della batteria e la voce, con inserimenti successivi di campane di chiesa(??) e delle chitarre, una delle quali impiega un effetto eco. Dear Madam Barnum e Humble Daisy richiamano palesemente i Beatles e McCartney in particolare. Gli accordi iniziali della seconda ricordano un passaggio dell’inciso strumentale [verifica] di Your mother should know (song mccartneiana in Magical Mistery Tour), e al quartetto fanno pensare il piglio da banda di circo (Barnum, del resto), i coretti e le armonizzazioni vocali nella strofa e il vociare di un immaginario pubblico nella seconda. D’annata, nello stessa canzone, l’uso da parte di Gregory dell’organo hammond, presente anche in altri cinque brani dell’album: un indizio dell’inclinazione storicizzante, discreta e mai ostentata, che compone il sound del gruppo.

D’altro canto non si può ridurre la musica degli XTC a una sorta di ben temperato prontuario beatlesiano e della bella musica del tempo che fu. Semmai è più giusto, una volta identificata la dialettica fra tradizione e innovazione nella musica degli swindoniani, parlare con Riccardo Bertoncelli di “enciclopedismo musicale” dei tre (vedi l’introduzione a XTC, Arcana, 1992, p. 35), o di una grande recettività e creatività nell’attraversare la fertile tradizione del rock dalle origini ai giorni nostri. Lo stesso Partridge del resto “confessa” la derivazione Fleetwood Mac di The Disappointed, l’impiego degli accordi di I Get Around dei Beach Boys per Books are Burning, mentre, sempre secondo il suo autore, Wrapped In Grey “è un pezzo di Burt Wilson, nel senso di Burt Bacharach più Brian Wilson“. Omnibus, una sorta di filastrocca che, al pari di Holly up on Poppy, ci mostra un Partidge come McCartney interessato alla melodia infantile, prende lo spunto da un accordo di See Emily Play dei Pink Floyd di Syd Barrett, quello arpeggiato dalla tastiera in chiusura di ogni verso del ritornello (si veda ancora Bertoncelli alla pagina citata).

Abbiamo poi Then She Appeared, aperta da un arpeggio di chitarra a dodici corde a cui segue la voce solista sospesa fra sogno e incantamento, ancor più quando il controcanto e un sintetizzatore che sa di flauti di mellotron illanguidiscono con grazia il tessuto melodico del brano. “Then she appeared, apple venus on a half open shell”: una visione botticelliana messa in musica. Wrapped In Grey presenta piano e quartetto d’archi al completo acccanto agli strumenti più consueti e un testo che invita i sognatori, le cui “bizzarie inconsce” sono popolate da “mongolfiere e vaporetti”, “pappagalli e lemuri”, a “non lasciare che i senza cuore vi rifilino un mondo avvolto nel grigio”. The Ugly Underneath va segnalata almeno per il ritornello, con gli splendidi arrangiamenti di tastiera e chitarra di Gregory, che risaltano con pienezza nel finale, di sapore quasi bachiano (o bisogna riferirsi a Bacharach e Wilson, come fa lo stesso autore?).

Il disco è chiuso da Books Are Burning, a cui già si accennava per l’ascendenza Beach Boys. Si tratta, con Rook (brano lento molto bello che ha un’elaborata costruzione armonica su un tempo di 3/4, con una sequenza di piano che pare rimandare a esperienze minimaliste), dell’unico pezzo di Partridge di cui egli si dichiari soddisfatto. Pur non essendo d’accordo con lui, diciamo comunque che è un brano distesamente rock, con una serie di quattro assoli di chitarra (tanti non se ne ascoltano in tutto il resto del disco) scambiati fra l’autore e Gregory, e un coretto che chiude canzone e album. Il titolo e il teso si riferiscono con buona probabilità alla vicenda dello scrittore Salman Rushdie e a tutte quelle situazioni di intolleranza che dal campo culturale si estendono a quello della convivenza civile tra uomini: “Books are burning / In the still air / And you know where they burning books / People are next”.

La strada che gli swindoniani percorrono da anni mostra altri possibili compagni di cammino, oltre a quelli appartenenti alla tradizione illustre di cui si è detto sopra. Non ci sembra improprio fare il nome dei Pere Ubu, anche loro partiti da un ruvido sound di matrice punk, nella variante americana del garage, per approdare all’eccellente compostezza pop, sicuramente non apprezzata dalla maggior parte degli estimatori della prima ora, di un album come Worlds in Collisions. Ma viene anche da pensare, fosse anche solo per opposizione, al versante commercialmente più redditizio di certo pop-rock rappresentato dai Talking Heads e da Joe Jackson (la cui vocalità, tra l’altro, può a tratti richiamare quella un po’ enfatica di Andy Partidge), “coetanei” degli XTC e provenienti, con approssimazione, da un analogo contesto socio-musicale. Comune è l’approccio ironico e demistificante a una certa idea sacrale di rok‘n’roll, la consapevolezza critica e il taglio intellettuale del loro fare musica, diverso, e non poco, è invece l’esito sul piano concreto delle scelte stilistiche, della scelta dei modelli cui far riferimento, della promozione della propria immagine.

Tornando al disco, resta da rilevare la grande cura dei suoni, la grande pertinenza degli arrangiamenti, compresi quelli per le sezioni di archi e fiati, la convincente prova fornita dai diversi collaboratori, a partire dal batterista Dave Mattacks, storico componente del gruppo di folk-rock dei Fairport Convention negli anni ’70, bravissimo nel rinfrescare il drumming della band, che, affidato a Pat Mastelotto, risultava un po’ troppo “programmato” nel precedente Oranges & Lemons. Nonsuch ci sembra costituire un punto d’arrivo per i tre musicisti inglesi, forse anche un punto di non ritorno, oltre cui non è più possibile andare. Come è infatti pensabile che riescano a levigare e limare ulteriormente il loro già abbastanza prezioso “pop perfetto” senza farlo scomparire in un pulviscolo dorato? E come gli sarà possibile continuare ad attingere a un patrimonio altrui, peraltro inesauribile, senza generare un’impressione di già-sentito? Non crediamo che gli XTC siano un gruppo destinato ad accasarsi sulle rive di una scrittura musicale standardizzata o sterile. È legittimo avanzare il sospetto, o il timore, di manierismo, ma di un manierismo da intendere nel senso di pieno raggiungimento di una misura che, nella sua dialettica fra emulazione e ricreazione, tende a conformarsi come classica. Cosa non da poco, in un momento musicale in cui prevalgono le spinte centrifughe, le infrazioni alle regole e le contaminazioni che sembrano annunciare l’arrivo di un nuovo barocco di massa. Si può essere non d’accordo con l’anelito di classicità e misura che la musica degli XTC esprime, ma non ci si può trattenere dall’alzarsi in piedi e applaudire al passaggio di Pietro Testadizucca e dei suoi amici. Hooray!

Paolo Bertrando “XTC – Testi con traduzione a fronte” (Arcana Editrice, 1992)

In parallelo all’uscita del nuovo album degli XTC, con gran tempismo l’Arcana pubblica nella sua collana più diffusa, Musiqa, un’antologia di traduzioni di liriche del gruppo con testo a fronte. Si tratta in tutto di 65 brani, che costituiscono appunto solo una parte dell’intero repertorio di testi dei tre di Swindon (in realtà gli autori dei testi, come delle musiche, sono i soli Moulding e Partidge). Non si poteva d’altronde chiedere alla casa editrice uno sforzo maggiore, vista la diffusione pressoché amatoriale a cui il libro sembra essere destinato. Molto del pregio del volume è nella bella introduzione di Riccardo Bertoncelli, La ballata delle Teste-di-Zucca: storia stratosferica dei duchi di Swindon. Con il suo tratto rapsodico Bertoncelli ci accompagna lungo le varie tappe della vicenda musicale del gruppo britannico, trapuntando lo scritto con utili notizie su uscite discografiche, formazioni, ruolo dei produttori, dichiarazioni rilasciate dall’altrettanto rapsodico, e lucido, Partridge (a proposito, non sgradita sarebbe risultata l’indicazione della fonte da cui esse sono tratte). Si sente che Bertoncelli intrattiene un rapporto di fidente complicità con l’oggetto del suo discorso, e non di rado fioriscono immagini e metafore, caratteristiche del suo linguaggio critico. Ecco qualche esempio: “qui si parla di marginali con l’elastico che al margine finiscono per ritornare sempre” (p.5). “Swindon è la capitale apparente degli XTC ma Partidge, Moulding e Gregory non abitano in realtà lì, situati piuttosto in una terra fantastica e tutta mentale che si cercherebbe invano su un atlante. La chiamerò Swindonia, questo u-topòs, e noterò che confina a nord con la Shangri-La dei fratelli Davies, a sud con la sterminata Pepperland dei Beatles e la qualche parte con quella ‘Land of Grey and Pink’ di cui parlano i geografi Sinclair” (p.6): ecco la proposta di un canone con lieve ammicco iniziatico. “Partridge e Moulding mostrano di avere annusato bene i fiori del passato pop, prima che finissero nella spazzatura dove si compiacciono di ammirarli” (p.10). Elvis Costello “va considerato cugino degli swindoniani, pur se di ramo collaterale – la dinastia è beninteso quella dei Lennon-McCartney, i Tudor dell’età moderna”. Certo è un linguaggio che difficilmente può costituire un modello, pena la perdita del senso di misura e l’indulgere in deliri liricizzanti propri di tanti apprendisti critici rock di riviste ben note. Bisogna riconoscerne l’unicità e le capacità evocative e poi, almeno per quanto ci riguarda, seguire la strada di una comunicatività più piana e diretta.

Discorso a parte merita la traduzione, eseguita da Paolo Bertrando. Nell’insieme assolve il compito a cui dovrebbe sempre attenersi la traduzione di un testo rock, che è quello di rendere più intellegibili le parole nella lingua d’origine immediatamente consultabili nella pagina a fianco. In passato alcuni testi dell’Arcana avevano ampiamente travalicato la loro funzione, costituendo talvolta un balordo esercizio pseudopoetico in cui il traduttore s’imbarcava stravolgendo completamente l’originale. Valga per tutti il caso del libro dedicato ai Doors, la cui “traduzione” è di Massimo Bracco. Bertrando nel complesso si mantiene nei limiti della sobrietà, preferendo all’esibizione il servizio per il lettore. Talvolta i giochi di parole o le esigenze di rima lo inducono a forzare un po’ l’originale, con esiti alterni. Due esempi nella stessa canzone, uno in positivo, l’altro in negativo. Il brano è Are you receiving me (pp. 58-9); a un certo punto il testo dice: “I put it in a letter, what could be better?”, e Bertrando: “L’ho spedito per posta, mi pare una cosa tosta”, e qui va bene. Ma “I put in a note, one night I wrote” reso con “L’ho scritto su un blocco, non chiamarmi sciocco” è una forzatura bella e buona. Meglio sarebbe allora una rima imperfetta: “L’ho messo in un blocco-note, l’ho scritto una notte”. A p. 103 compensation viene erroneamente tradotto con compensazioni, probabilmente per mantenere la rima col precedente demolizioni, mentre la traduzione corretta, visto il contesto, sarebbe indennizzo.

Il secondo verso di My Bird Performs (pp. 198-9) lo intenderei diversamente: “No vintage wine designer clothes” costituscono due complementi oggetti distinti, ovvero “vini d’annata” e “vestiti firmati”, e non, come viene reso lacunosamente, un’unica locuzione: “i vestiti degli stilisti d’annata”. Un’ultima osservazione di questa serie pedante riguarda un vecchio vizio delle traduzioni Arcana. Quando cioè una parola dell’originale è resa con più corrispondenti italiani. Si prenda The Smartest Monkeys, pp. 202-3. L’aggettivo del titolo è tradotto, nelle diverse occorrenze del testo, con intelligenti (come nel titolo stesso), svelte, astute. D’accordo, non siamo ai livelli di sofisticazione pepetrati da Bracco nel sopracitato volume dei Doors; resta comunque che voler rendere con diverse varianti le differenti sfumature di senso contenute nel termine originale è un’operazione troppo didascalica e ambigua, che disattende una delle regole basilari della traduzione: quella di giocare ad armi pari un gioco per sua natura impari.

Non ci si può soffermare troppo su quello che costituisce il punto di partenza del libro: le liriche di Partridge e Moulding. Vale comunque la pena di fare qualche rilievo cursorio, in attesa che qualcuno avvii sistematicamente l’applicazione della critica stilistica al fertile campo della popular music e del rock in particolare. Si può innanzitutto notare, e lo fa anche Bertrando nella sua Nota ai testi, una graduale evoluzione nell’uso delle parole attraverso gli anni. Gli esordi della band sono legati, anche sotto questo aspetto, al punk, per tematiche, icasticità e rapidità di notazione. Appaiono motivi adolescenziali, come la rivendicazione delle propria identità attraverso la musica in This is pop: “In latteria mi sento perso / Bevo bibite ghiacciate come brina / Qualcuno si gira verso di me / E opina sulla mia scelta sul juke-box / Come lo chiami questo rumore / Che hai messo su? / Questo è pop / Yeah Yeah”. Ancora propensioni adolescenziali e subculturali in Science Friction (“Mi leggo i fumetti da cima a fondo”) e in Into The Atom Age (“Mi distendo con un porno tridimensionale”).

In Drums and Wire compare il brano Making Plans For Nigel di Moulding, che parla dell’iperprotettivismo dei genitori nei confronti dei figli. “Stiamo soltanto facendo piani per Nigel / Noi non vogliamo che il suo bene / Stiamo soltanto facendo piani per Nigel / Nigel ha tanto bisogno d’una mano amica / E se il caro Nigel dice che è felice /Dev’essere felice”. Il tema è ripreso nella canzone di English Settlement (1982) significativamente intitolata No Thugs In Our House (Niente delinquenti in casa nostra). Ma i versi di quest’ultimo brano sono interessanti soprattutto sul piano stilistico, intessuti come sono di allitterazioni e assonanze. Ad esempio: “The insect-headed worker wife will hang her waspies, o “A boy in blue is busy banging…”, e più avanti “She’s singing something stake and simple…”. Col tempo le liriche diventano più sottili, più ricercate, proprio a partire da quell’English Settlement che molti considerano il capolavoro del trio. Accanto allo spirito vagamente iconoclasta e sarcastico degli inizi, si fa strada una sempre più accentuata inclinazione ironica, un understatment tipicamente britannico, ivi compresa qualche punta di snobismo e cinismo. Così Moulding in Wonderland (da Mummer del 1983) dichiara di essere “troppo chiaro e semplice per il tuo archivio” e in My Bird Performs sostiene di non essere commosso, oltre che dai vini d’annata e dagli abiti firmati di cui sopra, dalle belle arti, dai drammi teatrali e dalla prosa intellettuale, così come freddo lo lasciano i sonetti di Shakespeare. Che sia un atteggiamento di understatement lo conferma il brano di Partridge The Mayor of Simpleton (da Oranges & Lemons), tutto all’insegna di questa tendenza all’abbassamento di tono, perfettamente in linea con le placide e vaporose armonie beatlesiane delle canzone. “Non saprei dire il peso del sole / Di matematica proprio non ne voglio / E forse sarò il sindaco di Sempliciopoli / Ma una cosa la so: ti amo / E quando la logica gli sarà fredda e avranno finito di pensare / Potrai scaldarti tra le braccia del sindaco di Sempliciopoli”. E oltre, fra le righe dello stesso pezzo, Partridge confessa di non sapere “scrivere canzoni di successo” (sarà poi vero?).

Ma i conflitti adolescenziali e l’ironia leggera e autoreferenziale non sono certo gli unici motivi che si possono cogliere nella lettura di questi testi. I temi politico sociali non sono mai ostentati o innalzati sulla bandiera delle grandi cause, ma sono comunque presenti. In Millions (p. 74) si esortano i popoli dell’est a non farsi abbindolare dal sogno occidentale; Generals and Majors (p. 84) come War Dance (p. 206) paventano uno spirito bellicista che non è mai spento, mentre una sorta di programma pacifista di massima è in Melt The Guns (Fondere le armi, p. 118). Sfiducia per come vanno le cose di questo mondo e coscienza delle ingiustizie che le costellano sono motivi che emergono da canzoni come King For A Day e Cynical Days di Moulding o in The Ballad of Peter Pumpkinhead di Partridge. A questi si deve anche il testo della splendida Dear God, lettera a un dio in cui non crede (“Se c’è una cosa in cui non credo / Sei tu… Caro Dio”), ma anche accorata petizione a favore di un’umanità scossa dai drammi di ogni giorno ed epoca. La canzone venne esclusa da Skylarking, forse il più bel disco degli XTC, prodotto nel 1986 da Todd Rundgren. Si può trovare in qualche recente edizione americana del disco, oppure nella raccolta di produzioni rundgreniane An Elpee’s Worth Of Productions (Rhino Records, 1992).

L’attraversamento del libro dell’Arcana ci ha fornito nuovi spunti d’interesse nei confronti di questi bei “marginali con l’elastico”, funzionando in parte anche per le liriche quella richiesta d’attenzione e curiosità analitica che proviene dalla musica dell’ineffabile terzetto di Swindon.

da: Andrea Coralli, “Navigando sui mari di formaggio”, Auditorium Edizioni, 1996 © Michele Coralli

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