Witold Lutosławski, polacco sempre

Foto: Włodzimierz Pniewski & Lech Kowalski
Michele Coralli
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«La musica è multisignificante dato che quando si può credere che significhi qualche cosa allo stesso tempo significa sempre qualcos’altro, anche di contraddittorio».

Così Witold Lutosławski (25 gennaio 1913 – 7 febbraio 1994) in una riflessione che è frutto di un’attività lunga quasi ottant’anni, cronologicamente culminata con la direzione della sua quarta sinfonia a pochi mesi dalla scomparsa. La storia di questo compositore è quella di un uomo che ha attraversato il Novecento, rimanendo per tutta la sua esistenza in uno di quei luoghi che sono stati il centro di devastanti conflitti. Quella Polonia prima ambiziosamente espansionista, poi piegata, spartita, conquistata, azzerata, infine ricostruita e governata con il pugno di ferro fino al suo allineamento occidentale. Lui è sempre rimasto in quel paese, sopravvivendo a tutto, come un Primo Levi della musica, testimone di un’arte capace di mettere sempre in luce la parte migliore dell’uomo.

Lutosławski nasce a Varsavia da una famiglia economicamente agiata e politicamente schierata con il conservatore partito democratico nazionale. Un momentaneo trasferimento nella Mosca zarista, poco prima dello scoppio della rivoluzione bolscevica, causa l’arresto e la fucilazione del padre e dello zio, mentre il resto della famiglia torna in patria al termine della guerra sovietico-polacca (1919-21). A Varsavia il giovane Witold inizia gli studi di pianoforte, violino e composizione in Conservatorio, matematica all’università. Lavora come pianista tra le sale da concerto e i caffè della capitale, iniziando a scrivere e pubblicare musica nel corso degli anni ‘30. Nel Dopoguerra, quando anche la Polonia è impegnata in una possente opera di ricostruzione, il compositore entra con slancio nella riorganizzazione delle istituzioni musicali che guidano la rinascita culturale. La musica nata da quella generazione di musicisti prende le mosse da un classicismo che affonda le radici in un passato nazionale a cui si aggiunge la riscoperta dei materiali folklorici autoctoni.

Una realtà culturale che fa buon gioco quindi, da una parte di chi si nutre di miti nazionalistici (molto marcati anche da queste parti), dall’altra di chi dall’esterno spinge verso un’estetica del realismo, frutto di un amalgama di retorica ideologica e di eccessi di semplificazione. Bartók indica una strada alternativa a cui Lutosławski – che ha già al suo attivo un piccolo gruppo di composizioni e una sinfonia imperniata sui modelli classici bollata come “formale” – sembra inizialmente protendere. Ma con il pesante arrivo dello zhdanovismo opterà per un alveo “protetto”, fatto di canzoni per l’infanzia e brani dal sapore ecumenico come Mala Suita (1950), composizione stampo popolare priva però di orientamenti progressivi. L’opera di stratificazione dei significati inizia in maniera pregnante con composizioni come Uwertura smyczkowa (Ouverture per archi, 1949), una breve composizione in cui si affaccia in modo sostanziale quel dualismo nato dal contrasto tra tonalità e atonalità, vissuto però attraverso intuizioni cromatiche, piuttosto che sull’adesione ai noti sistemi già in uso. Nel potente Concerto per orchestra (1954) la dimostrazione di una visione strumentale che usa sì l’elemento popolare al fine di sviluppare un sontuoso percorso orchestrale, ma lavora di lima su ogni eventuale spigolo di ascendenza bartokiana. Precisione nella scrittura, grande capacità di orchestrazione, estrema attenzione alle relazioni formali e ai contrasti timbrici, rispetto quasi scolastico delle regole auree di armonia e contrappunto: queste i punti di forza del primo Lutosławski, queste le idee con cui l’autore attraversa il complicato periodo della caccia al “formalismo”.

Dalla seconda metà degli anni ’50 e soprattutto dai primi ’60, in tempi cioè di destalinizzazione, avviene una profonda accelerazione nel linguaggio, che inizia per Lutosławski con l’allineamento alle sperimentazioni che stanno entrando in maniera stabile nella musica moderna. Per quanto riguarda i processi dodecafonici si tratta in realtà di un graduale avvicinamento, mai di una totale adesione e lo stesso dicasi a proposito degli orientamenti seriali, dato che l’espansione tonale continua ad arrivare con più convinzione attraverso il progressivo allargamento dell’universo cromatico e con la scoperta delle procedure aleatorie, promosse a Darmstadt da Cage nel 1958. Inizia così un serrato confronto con la contemporaneità, ad esempio attraverso il mondo della moderna vocalità e della poesia di avanguardia, come nel caso dei Cinque Canti (1958) per soprano e pianoforte, e in Trois Poèmes d’Henri Michaux (1963), o ancora con Jeux vénitiens per orchestra da camera, presentato in prima assoluta alla Biennale di Venezia nel 1961 – opere queste che collocano definitivamente il polacco nel consesso dei compositori contemporanei più rilevanti del periodo. L’adesione a un’alea controllata, ovvero limitata a un margine minimo di scelte (più ritmiche o di durata, che intervallari), scaturisce in un’altra pagina importante come il Quartetto per archi (1964), opera spregiudicata dal punto di vista armonico e al tempo stesso limpida nella sua trasparenza contrappuntistica. E anche la Seconda sinfonia (1967) rientra in un panorama musicale che sembra riuscire a trovare osmosi capaci di oltrepassare anche la Cortina di ferro.

Sono anni di consolidamento della centralità della sua figura anche in qualità di organizzatore all’interno della realtà istituzionale polacca: la direzione d’orchestra, il ruolo all’interno dell’Unione dei Compositori Polacchi, la vicepresidenza della International Society for Contemporary Music e l’affermazione internazionale a partire dai numerosissimi premi ricevuti in carriera: dall’UNESCO, al premio “Ravel” e “Sibelius”. Ulteriori meriti anche nel lavoro all’interno di importanti centri di diffusione come l’Autunno di Varsavia, festival di musica contemporanea attivo fin dal 1956, e nella promozione dello Studio Sperimentale della Radio Polacca che diventa, al pari di analoghi centri europei, un influente luogo di sperimentazione sulla musica elettronica.

Negli anni ’80, politicamente segnati dall’affermazione di Solidarność e dall’inizio del crollo dell’intero blocco socialista, si delinea l’ultima fase artistica di Lutosławski con la Terza Sinfonia (dedicata a Solti), ma soprattutto con il Concerto per pianoforte e orchestra (1987) commissionato dal Festival di Salisburgo e scritto per il connazionale Krystian Zimerman e Chain II, dialogo per violino e orchestra che trova la sua dedicataria in Anne-Sophie Mutter. Una composizione costruita su strati disgiunti che creano un processo di concatenamento delle parti molto complesso, ma al tempo stesso sempre molto limpido.

Coerente al suo processo di evoluzione interiore – sia in contrasto alla normalizzazione del realismo socialista, sia all’omologazione globalizzata espressa tra molti compositori dell’Est Europa da quel target spiritualista così in voga in epoche vicine al crollo del Muro – la musica di Lutosławski è ancora oggi veicolo di una grande forza espressiva che, al pari di molti classici del Novecento, continua a essere qualità assolutamente moderna, specie – o soprattutto – in epoche come la nostra. Che l’attuale anniversario [2013, NdR] possa giovare quindi a una sua riscoperta…

da: “Amadeus”, n281, 2013 © Paragon / Michele Coralli

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