Stefano Giust / Setola di maiale: il suono delle minoranze rumorose [intervista]

Michele Coralli
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“Quale musica può rappresentare il mondo contemporaneo?” Lo chiedeva Fred K. Prieberg (in “Musica Ex Machina”) e il medesimo interrogativo lo riprende anche il manifesto estetico-culturale di Setola di maiale, etichetta discografica di Stefano Giust che raggiunge oggi i 20 anni di attività.
Musica radicale, improvvisazione, noise, elettronica, sperimentazione aperta. La definizione di possibili contorni diventa ardua, se non oziosa, quando non si richiede una necessaria dimestichezza con la definizione dei confini. Le segmentazioni in questo caso possono venirci incontro solamente in una fase orientativa, poi occorre lasciare le mappe per farsi condurre dai suoni.

Sono oltre 400 i musicisti di questa non-etichetta nata nel 1993 e che finora ha prodotto 240 titoli distribuiti senza l’assillo di arrivare ovunque, perché “la gran massa del pubblico non sa che farsene della musica” – come continua a suggerire Prieberg.
E percorrendo il vasto catalogo saltano all’occhio nomi importanti e suggestivi come Carlo Actis Dato, Michel F. Côté, Jean Derome, Massimo Falascone, Gianni Gebbia, Tristan Honsinger, Tim Hodgkinson, Xabier Iriondo, Peter Kowald, Joëlle Léandre, Gianni Lenoci, Filippo Monico, Patrizia Oliva, Roy Paci, Eugenio Sanna e un’infinità di altri che tralasciamo solo per brevità.

Sul sito della tua etichetta definisci questa esperienza come “un laboratorio/archivio di libera coagulazione”. Un lavoro che dura da parecchio tempo. Facciamo allora un po’ di storia?

«Inizialmente Setola di Maiale non voleva essere una etichetta discografica e, per certi versi, nemmeno oggi questa parola le calza veramente a pennello. Storicamente, una etichetta aveva (ha?) dei compiti ed un ruolo che bene o male tutte le case discografiche hanno perseguito. I tempi in questi ultimi decenni sono notevolmente cambiati e tutto ha subito una trasformazione. Per le musiche non allineate, la scarsa o inesistente attenzione dei mass media popolari ha l’inevitabile effetto di impoverirle, di portare a un generale abbassamento dei budget e delle risorse a cui attingere. Il pubblico affezionato è piccolissimo e ti ritrovi spesso in mezzo a mille scelte che non ti rendono migliore o più “efficace”. Il globalismo ha depotenziato gli individui, quindi anche gli artisti e i loro affari, così come tutto l’indotto produttivo. Esclusi i veri appassionati, non c’è più quel grande attaccamento alla musica. Del resto come si fa ad amare un neutro file mp3? Quando ero ragazzino compravo le cassette o gli LP. Era una passione grandissima tenere in mano quegli oggetti, leggerne le note… Era appagante, un piacere che oggi è stato estirpato o sostituito da quello che molti hanno nel tenere in mano un I-Phone che, assieme a Spotify, mi fa abbastanza schifo… Un tempo volevo utilizzare I-Tunes e poi ho desistito».

Infatti Setola rimane molto legata al supporto CD… Mi dici però come e quando è nata questa esperienza?

«Nel 1993 Paolo De Piaggi ed io eravamo due musicisti che suonavano da parecchi anni e avevano molti progetti da realizzare, sia solistici che in combinazione con altri musicisti. La cosa più ovvia era formare una “etichetta” che pubblicasse e rendesse disponibili i nostri lavori. Pensare di trovarne una era impensabile, così un giorno ho detto semplicemente a Paolo: “arrangiamoci!”. Sapevamo che le nostre esigenze erano le stesse di molti nostri amici musicisti. Decidemmo così di offrire gratuitamente anche il nostro piccolo studio di registrazione, insieme alle competenze di Paolo, per registrare tutti quelli che avrebbero pubblicato con Setola. Quando poi lui, qualche anno più tardi andò a vivere in Vietnam, questa opzione decadde. L’entusiasmo ci ha sempre caratterizzati, si discuteva insieme ad altri musicisti, si cercavano idee semplici e abbordabili nei costi. Nel 1997 organizzammo addirittura due rassegne di tre serate ciascuna. Poi nel 1999 siamo stati invitati alla Biennale di Venezia come collettivo fuori dagli schemi. Ecco il laboratorio. Era questo movimento con altre città, altri musicisti. Nuove relazioni e nuovi dischi che sono sempre nati insieme dallo sforzo di tutti i musicisti coinvolti».

Uno spirito molto DIY, come in ogni etichetta “veramente” indipendente.

«Sì, per Setola la fortuna è stata anche il fatto che oltre ad essere musicista sono anche grafico professionista così questo problema non si è mai presentato. Il primo lavoro di Setola fu un LP e sapevamo che sarebbe stato anche l’ultimo, perché la cassetta era la scelta che più di tutte poteva assicurarci quanto ci eravamo prefissati. Volevamo cioè produrre tutto quello che ci piaceva con la massima libertà e disinvoltura. Poi vennero i CD-R ed anche i packaging cambiarono più volte. Al tempo c’era un catalogo cartaceo per procurarsi gli album, oggi il website o direttamente ai concerti».

Intendi dire che non esiste una distribuzione del catalogo oltre al tuo sito?

«No e non ne cerco. Tuttavia per molti dischi prodotti esiste una distribuzione alternativa al sito, perché ogni musicista è libero di dare le sue copie ai distributori e gestirle così in maniera autonoma. Questo mi piace».

Qual è la tiratura media e quali sono i titoli più venduti?

«Le tirature più praticate sono 150, 200 e 300 copie. Poi ci sono le ristampe. Moltissimi lavori vengono tutt’ora ristampati, anche a distanza di anni. Quanto ai titoli più venduti, nel complesso non c’è un disco che emerga in modo netto rispetto agli altri. Magari al contrario saltano all’occhio quelli che hanno venduto pochissimo e che riguardano purtroppo i musicisti meno conosciuti. L’ultimo K-Space è certamente fin da ora un best-seller di Setola. Ma è facile così».

Come è si è caratterizzato allora il catalogo?

«I primi titoli riguardavano soprattutto noi e le nostre collaborazioni. Poi, con gli anni, le nuove amicizie e le nuove collaborazioni, il catalogo ha cominciato a ingrossarsi, fino ad arrivare alle oltre 400 collaborazioni di oggi. In tanti, per mancanza di soldi, contatti o poca commerciabilità, avevano la loro musica chiusa in un cassetto, come Sergio Fedele. Per noi questo era intollerabile. A quel punto ogni strada per pubblicarla sarebbe stata valida. In quegli anni erano poche le etichette e quelle che c’erano erano oberate di lavoro, ma ce n’erano diverse che erano già un punto di riferimento per i musicisti e certe scene più o meno consolidate. Io arrivavo dalla cultura DIY, quella degli anni ’80 fatta di fanzine, cassette autoprodotte, mail-art, ecc. Da qui ho maturato un forte senso per l’indipendenza e la libertà artistica».

Ricordiamo che stiamo sempre parlando di musica che un tempo si definiva “radicale”.

«L’intenzione “secolare” è sempre quella di dare priorità alle musiche non convenzionali, siano esse di improvvisazione o scritte, di nomi illustri o geniali sconosciuti, non importa. È anche vero che l’improvvisazione è l’indirizzo maggiormente perseguito dal catalogo. Quindi c’è la musica elettronica e sperimentale, ma si passa anche per dischi trasversali fatti di canzoni strumentali e perfino canzoni cantate, a patto però che a realizzarli siano sperimentatori patentati, ovvero dotati di una creatività che non conosce limiti di genere.
In definitiva, questa è una cosa che mi è sempre stata a cuore: offrire ai musicisti radicali un contenitore per produrre anche le cose più inaudite, senza la paura che possano determinare un grave fallimento economico, dato che le tirature limitate possono arginare queste perdite.
A me non interessa altro che la musica, il risultato artistico. Una delle peculiarità di Setola è la diversificazione delle proposte: musica improvvisata, musica elettronica e sperimentale, concreta, aleatoria, tonale, atonale, microtonale, musica per archi, per percussioni, per chitarre, per voce, per fiati, rock in opposition, free jazz, classica contemporanea, elettroacustica.
C’è molta roba negli oltre 240 titoli di oggi e questo – ne sono consapevole – ha sempre spaventato un pochino chi acquista un disco setolare.
L’utopia di una etichetta che si regge sulle proprie produzioni, senza avvalersi di pubblicità, senza un rapporto formale con la stampa, senza una distribuzione sembrava folle allora e credo lo sia ancora oggi. Nella partita infatti sono inclusi anche i difetti che tutto questo comporta, ma sono sicuro che se le premesse fossero state diverse, se il progetto non fosse stato così profondamente anticommerciale e anticapitalistico, oggi non ci sarebbe questo anniversario. Ed è solo l’amore che spinge me e i musicisti a stampare quei dischi che produciamo».

2013 © altremusiche.it / Michele Coralli

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