Mino Bertoldo: 40 anni Off [intervista]

Foto: Garghetti
Michele Coralli
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40 anni nel 2016 e una ricca stagione per celebrarne la rilevanza culturale all’interno di un percorso orgogliosamente contemporaneo, ma altrettanto orgogliosamente libero dalle tenaglie di un accademismo antico, prima, e dall’omologazione del pensiero unico indotto dalle logiche di mercato, dopo.
Un tempo l’Out Off era una cantina in via Montesanto, frequentata da una congerie di personaggi singolari che abitavano l’underground milanese della metà degli anni ‘70. Solo per limitarci alla musica, di lì passano – e non certo in modo inosservato – personaggi “pop” come Demetrio Stratos, Franco Battiato o Claudio Rocchi, poi anche tutti i musicisti del free italiano come Guido Mazzon, Giancarlo Schiaffini, Roberto Bellatalla, Filippo Monico, inoltre moltissimi autori e interpreti della musica contemporanea più aperta e non succube del dogma seriale. Quindi il Gruppo Zaj, ovvero il “distaccamento” europeo Fluxus con Walter Marchetti e Juan Hidalgo, ma anche Ivan Fedele, Antonio Ballista, Giancarlo Cardini, Davide Mosconi, Giuliano Zosi e moltissimi altri. L’evento che rimane impresso più di ogni altro nella storia dell’Out Off è il clamoroso passaggio di John Cage con il suo “Empty Words”, opera presentata in una celebre conferenza stampa e poi data in pasto a un pubblico molto diffidente nella celeberrima performance del Teatro Lirico nel 1977.
40 anni dopo, in occasione della rassegna “Out Off Musica” che celebra sul fronte musicale parte di questa storia, ce ne facciamo raccontare una parte da Mino Bertoldo, fondatore e attuale direttore artistico del teatro.

«L’Out Off nasce nel 1976 con un lavoro teatrale storico di Hermann Nitsch, “Azione n.53”, un’apertura straordinaria dell’attività. Subito però è iniziato un rapporto con il mondo della musica. Il primo a partecipare è stato Franco Battiato, Poi attraverso un bellissimo rapporto con Gianni Sassi della casa discografica Cramps abbiamo prodotto tutta una serie di concerti: da Claudio Rocchi a Gianpaolo Tofani fino ad arrivare nel ‘77 al famoso concerto di John Cage al Lirico, “Empty Words”. Poi c’è stato anche il rapporto con il mondo della musica che allora veniva definita Fluxus perciò Juan Hidalgo e Walter Marchetti. E, nel ‘77, ricordo anche il primo concerto punk a Milano».

L’Out Off sposa fin da subito un’estetica underground e anche John Cage – che oggi viene eseguito all’interno delle accademie – allora, nonostante i 30 anni di attività. veniva considerato “underground”. Come mai questo vostro orientamento poetico e artistico?

«Si è scelto in generale un percorso. Per quanto riguarda le arti il punto di riferimento era la Body Art e tutto il mondo Fluxus. Per la poesia c’era il rapporto con il Gruppo ‘63. In altre parole c’erano mondi i quali, anche se non dialogavano strettamente, avevano dei punti di riferimento comuni. Ovvero una visione che aveva il desiderio di svecchiare quell’accademismo che contraddistingueva i rispettivi mondo. C’era una vitalità notevole. Ma l’Out Off non era l’unico, perché c’erano tante piccole realtà. C’erano occasioni per ascoltare musica e anche di vederla. E dico vedere perché per noi è stata spesso “musica da vedere”. E mi vengono in mente Marchetti o Hidalgo».

Un orientamento quindi molto spontaneo, legato anche al momento politico che viveva Milano in quegli anni.

«Sì, penso anche a Franco Fanigliulo, una figura curiosa di quegli anni. Poi Alvin Curran, Horacio Vaggione, Andrea Centazzo, quindi molto, molto free jazz. Era importante non scegliere: le occasioni nascevano da sole. Fatta girare la voce che si andava in questa direzione, quasi automaticamente arrivavano proposte da parte di musicisti che si sentivano in sintonia con quel percorso. Quindi senza neanche chissà quale fatica. Era anche straordinariamente bello, perché ai musicisti bastava pagar loro il viaggio e ospitarli in casa».

Costava anche poco quindi…

«Non solo. C’era una generosità e un modo di vivere il proprio lavoro molto diverso da come stanno le cose oggi. E mi viene da dire: meglio prima. Quel mondo è stato normalizzato e si è prodotto un livellamento gigantesco. Spazi per questo tipo di musica – che è altrettanto significativa e che spinge a una riflessione e a un approfondimento che non è solo godimento acustico (spesso tutt’altro) – si sono persi. E queste occasioni purtroppo non capitano facilmente. La musica di Curran e Marchetti non si sente a Milano da non so quanti anni e lo stesso si può dire per Schiaffini e Cardini, sicuramente dei maestri e, nel loro campo, dei punti di riferimento. Uno può dire tutto quello che vuole ma c’è una generosità, un desiderio di approfondimento, un’ironia, un distacco rispetto ai condizionamenti del reale, che mi sembra straordinaria in queste figure».

Sembra fin strano che, dopo tutti questi anni, si continua a considerare figure come quelle che lei ha citato ancora quasi sotterranee ed extra-accademiche. Come mai secondo lei questo avviene proprio a Milano, dove invece succedono tante altre cose dal punto di vista della cultura contemporanea?

«Ovviamente la ricerca non finisce mai. Non è che a un certo punto c’è una scadenza. Questo bisogno, questa necessità dovrebbe manifestarsi comunque, ieri, oggi e mi auguro anche in futuro. Secondo me manca un’educazione musicale profonda che consenta una visione globale, pur riservandoci una direzione che pur ci gratifica o ci diverte. Perché passano quelli che garantiscono un certo numero di presenze, questo è il mercato. Realtà così singolari, questi piccoli segmenti prolifici, in realtà possono essere molto utili. Perciò è importante che queste presenze ancora abbiano occasione di esprimersi e avere i luoghi dove poterlo fare».

Vorrei tornare su quell’evento che forse più di qualsiasi altro ha fatto diventare famoso l’Out Off ovvero la conferenza stampa di John Cage e il conseguente spettacolo al Teatro Lirico con “Empty Words”. Secondo lei un personaggio così era nel posto giusto in quel momento?

«È stato John che ha fatto capire che era a casa sua e che era molto contento di esserlo. Proprio in quei giorni c’era la mostra di Joe Jones “Music Machine”. Poi sapeva che all’Out Off sia Marchetti che Hidalgo, carissimi amici suoi, stavano facendo delle cose. Nel ‘59 Cage partecipa a “Lascia o Raddoppia?” dopo Walter Marchetti, che si era presentato per la musica contemporanea. Quindi c’era un rapporto storico fra di loro. Sapere che veniva in un luogo di casa, l’ha fatto sentire a suo agio. E per noi è stata una grande soddisfazione. È raro che un grande maestro ti esprima con il sorriso – il suo sorriso magnifico – il piacere del fare e dello stare insieme».

La rassegna che avete organizzato (22-25 febbraio 2017) per ricordare quella storica stagione si apre proprio con l’omaggio a Walter Marchetti, scomparso nel 2015. Che ricordo ha di lui?

«L’ho conosciuto attraverso Gianni Sassi e i dischi che ha pubblicato con la Cramps. Quello che mi ha sempre colpito di lui è l’ironia, il gioco, il distacco e, nello stesso tempo, la grande capacità nel far venir fuori delle sonorità inaspettate che ti portano in dimensioni vicine alla terra e alla sua consistenza. Sono contento che sia proprio lui a iniziare queste quattro giornate».

[intervista trasmessa da Radio Popolare – Rotoclassica il 16 febbraio 2017]

2017 © altremusiche.it / Michele Coralli

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