Martin Davidson. Emanem: venticinque anni ai margini [intervista]

Trevor Brent (Fataka), Evan Parker (psi), Martin & Madelaine Davidson (Emanem), Patrik Landolt (Intakt), Michel Levasseur (Victo)
Michele Coralli
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Emanem, una piccola etichetta che però gode di un’importante reputazione, pubblica da ormai venticinque anni dischi di libera improvvisazione e con un piccolo ma illustre catalogo è diventata uno dei maggiori custodi di un genere che ha contraddistinto – e continua a farlo – una parte della musica della nostra epoca più recente. Martin Davidson, produttore e direttore unico, ha scelto coerentemente di seguire quella scena che incomiciò a muovere i primi passi a Londra sul finire degli anni Sessanta, così come quegli artisti omogenei a quella scena: tra gli artisti più rappresentativi, registrati per lo più durante session dal vivo, citiamo Paul Rutherford, Evan Parker, Anthony Braxton, Steve Lacy, Derek Bailey. Oggi il catalogo Emanem è stato quasi interamente ristampato su CD e continua la produzione di nuovi lavori.Davidson ci spiega direttamente il perché di certe scelte produttive e delinea una breve storia dell’etichetta londinese.

«Negli anni Sessanta mi piacque molto il free jazz e successivamente il mio interesse si spostò sulla libera improvvisazione. In quell’epoca c’erano davvero pochi dischi in quel settore, così decisi di pubblicarne io stesso. La cosa avvenne per la prima volta nel 1974 con il primo disco firmato Emanem: era la registrazione di alcuni concerti per sax solo di Steve Lacy (ristampato nel CD Weal & Woe, ndr). Ricordo che allora c’era un sacco di musica che non veniva pubblicata su disco. Adesso sembra strano, ma c’erano davvero pochissimi dischi di Lacy in giro. Un’altra importante pubblicazione per me è stata First Duo Concert di Anthony Braxton e Derek Bailey, che non avevano ancora suonato insieme come duo».

Quindi l’Emanem concentrò i suoi interessi sulla musica improvvisata.

«Sì. Rimango tuttora molto legato al jazz e, in particolare, alla sperimentazione in quel campo, anche se personalmente apprezzo anche altri tipi di musica, come quella tradizionale o la musica classica. Ma nella produzione della mia etichetta mi concentro sulla libera improvvisazione ed eventualmente sul free jazz. Penso che, come piccola etichetta, sia necessario delimitare il campo dei propri interessi».

Come era il lavoro discografico negli anni Settanta? Faceva fatica a trovare una diffusione per i suoi dischi?

«Non era male, anche se il mercato per questi dischi non è molto vasto. Negli anni Settanta il disco era ancora un oggetto prezioso e la diffusione non era così capillare come oggi. Penso, invece, che il problema maggiore fosse legato alle imperfezioni tecniche degli LP. Allora era quasi impossibile avere delle buone stampe su vinile e devo confessare, con il senno di poi, che avevo proprio vergogna di pubblicare alcuni dischi, proprio per la qualità della loro registrazione».

Molto di quel vecchio materiale è stato rimasterizzato. In che stato erano i nastri originali?

«La maggior parte erano a posto. In certi dischi, quando si passava da un nastro analogico a LP, si sentiva un pre-eco o un post-eco, ovvero il segnale passava da una posizione a quella vicina o, nell’LP, da un solco all’altro. In genere capitava nelle registrazioni di sax solo o trombone solo. Comunque la maggior parte dei nastri erano in buono stato ed è per questo che ho deciso di ripubblicarli su CD».

Alcuni sostenitori del vinile sostengono che la sua qualità sia migliore.

«Per me è un controsenso. Sì, c’è qualcosa di vero nella qualità del vinile. Le alte frequenze a volte nel CD suonano in maniera sbagliata. Ma su vinile ci sono tutti quei rumori elettrostatici e schiocchi continui. La libera improvvisazione ha un ambito dinamico molto ampio: si passa da un piano molto esile ad uno forte, molto accentuato. Su CD tali dinamiche risaltano meglio che su LP. Penso che per il rock o lo straight jazz la qualità del vinile possa essere apprezzata maggiormente a causa di un temperamento costante delle dinamiche. Penso che il CD non sia la perfezione, forse lo sarà il DVD».

Non pensa che l’improvvisazione, come gesto connesso alla creazione estemporanea, sia legata a una fruizione estemporanea? In altre parole, che senso ha il produrre dischi di libera improvvisazione?

«Penso che ci sia qualcosa dell’improvvisazione che non può essere trasferito su disco, ma se la musica è buona penso che possa essere ascoltata, sia direttamente durante un concerto, sia su disco. Ma ci sono diversi casi in cui l’aspetto gestuale del musicista di improvvisazione è molto importante, a volte invece lo è meno».

Eugene Chadbourne, ad esempio, dal vivo offre un comportamento umoristico che è sia musicale, sia gestuale.

«Era proprio quello a cui mi riferivo prima. Ci sono musicisti che privilegiano anche questo tipo di aspetto, altri che lo ignorano».

È vero. Evan Parker non è un musicista visivo.

«Esattamente. Non è così interessante da vedere (ride, n.d.r.)».

Forse lo è maggiormente Lol Coxhill.

«Coxhill a volte crea delle situazione, ma molto spesso si concentra unicamente sulla musica».

Visto che abbiamo citato alcuni musicisti scaturiti dalla scena inglese degli anni Sessanta e Settanta, parliamo proprio di quello che succedeva a Londra in quegli anni.

«Ci sono quattro nomi di musicisti appartenenti a quella scena a cui sono particolarmente affezionato e sono Derek Bailey, Paul Rutherford, Evan Parker e John Stevens. Ce ne sono tanti altri naturalmente, ma questi mi sembrano quelli più rappresentativi. Io ho iniziato ad ascoltarli nel 1971, anche se quel tipo di esperienze aveva iniziato a diffondersi già a partire dal 1966. Naturalmente c’era molta gente che suonava free prima di loro, ovvero musicisti jazz che saltuariamente si dedicavano a session di free jazz, come Joe Harris e Stan Getz, che appartenevano a contesti jazz più conservatori. C’erano invece persone più interessate all’improvvisazione in quanto tale. Io mi sono accostato all’esperienza free nel 1965, durante un mio soggiorno negli Stati Uniti: una session tra Byard Lancaster e Dave Burell, che mi piacque molto, poi Albert Ayler. Quando tornai a Londra incominciai a esplorare quei territori anche in patria. Qui c’erano tre aree principali. La prima era caratterizzata dal gruppo di Mike Westbrook, attorno al quale gravitavano musicisti come John Surman, Mike Osborne. A quel tempo mi piaceva molto quello che faceva, ora non sono più così sicuro. Poi c’era il sudafricano Chris McGregor con il quartetto Blue Note e l’orchestra Brotherhood of Breath. Infine tutti quegli ensemble di musica spontanea che creavano eventi estemporanei e che prendevano spunto o tendevano proprio verso la scena free jazz americana. Anche se i musicisti appartenenti a quell’ambito suonavano in tono e all’interno di strutture ritmiche».

Prima ha accennato a Mike Westbrook. Ora questo musicista ha cambiato l’ambito dei suoi interessi e ha sviluppato un percorso molto personale.

«Non lo conosco abbastanza per giudicare quello che sta facendo ultimamente. Ho perso di vista molti di quei musicisti di cui parlavo prima. Il mio problema rimane il tempo; la maggior parte di esso lo impiego nell’editing dei miei dischi, più che nell’ascolto. Facendo tutto da solo, sono sempre molto occupato».

Come nasce un disco Emanem?

«I musicisti mi mandano i nastri, molti dei quali sono vecchie registrazioni degli anni ‘60 e ‘70. Se mi sembra che la musica sia buona, allora decido di farne un disco. Dovendo decidere da solo, la cosa è facile».

Che senso ha pubblicare oggi delle vecchie registrazioni?

«Prima di tutto, come ho già detto, se la musica è valida, vale sempre la pena di pubblicare un disco. Poi c’è anche l’aspetto di documentazione storica. È interessante sapere cosa combinavano certi musicisti in un tal momento della loro carriera, anche se l’evento non è immediatamente correlato con il presente».

da: “Auditorium reviews”, n.4, 1999 © altremusiche.it / Michele Coralli

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