Keep the Dog [Shocking Club, Milano, 7 maggio 1991]

Andrea Coralli
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Pubblico d’età media sopra i trent’anni per Fred Frith che torna a Milano come primattore, dopo una comparsa come robusta spalla bassistica dei ghiribizzi sonori di John Zorn-Naked City, nell’ottobre dell’89 allo Smeraldo. E il ritorno veste il colore del rock in opposizione di due decenni fa…

Fred presenta per l’occasione i Keep the dog, una formazione fondata all’inizio dell’89 allo scopo di riproporre brani che non era mai riuscito a portare su un palco, attingendo al suo repertorio solistico e a materiale originariamente scritto per i gruppi Henry Cow, Art Bears, Skeleton Crew, per arrivare fino alle più recenti imprese dell’ineffabile quartetto French, Frith, Kaiser, Thompson. Complici compiacenti dell’avventura, che Frith dirige alternandosi a chitarra, basso e violino, sono, dal Quebec, René Lussier e Jean Derome (rispettivamente alla chitarra e al basso, e ai sassofoni, fluato e fischietti), già Conventum e già accanto al maestro in altre azioni di sabotaggio; Bob Osterag, del giro dell’avanguardia zorniana newyorchese, al campionatore, radio, nastri e rumoristica sintetica varia; Zeena Parkins, giovane ma valorosa polistrumentista e improvvisatrice proveniente dall’area Recommended (Lindsay Coooper, News from Babel), fra organo, fisarmonica e arpa; per finire con Charles Hayward, batterista-vocalista creativo, il cui ultimo disco è recensito in questo stesso numero.

Oggi i ritrovi dell’opposizione politico-culturale, non solo rock, hanno spesso il sapore (dolce-amaro) degli incontri iniziatici o del convivio militante. Quella sera milanese allo Shocking dovevano essere convenuti tutti i frithiani di metropoli e contorni, con qualche “inviato speciale” d’oltrepadania: il locale era comodamente pieno, senza rischi di soffocamento.

Il concerto è stata diviso in due parti da un intervallo di una ventina di minuti e da approcci musicali abbastanza diversi. Nella prima parte Frith e soci espongono il loro pluristilismo, abbinando momenti di spasimo sperimentale ad altri improntati al divertissiment e all’air à danser, come nel gusto del capobanda. Le trovate sono spesso geniali, gli intrecci gradevolmente stranianti, ma nell’insieme si avverte una certa pesantezza d’esecuzione, una difficoltà a carburare, come se i musicisti avessero mangiato troppo faticando nella digestione.

Nella seconda parte ritmi brutalmente primordiali organati da basso e batteria (questa con charleston, cassa e rullante molto serrati, in puro stile haywardiano) cedono improvvisamente il passo all’apertura della porta della camera degli orrori, a un’armonia turchesca melodizzata da chitarra e voce di Fred, al suo violino che s’addentra in una giga da altopiano scozzese, agli antipodi di certa world music risciacquata in Senna o Tamigi. Poi basso e batteria partono di scatto su un ritmo hard-core, a cui Hayward e Derome concedono la voce dell’urlo primitivo. La tensione cresce: dopo la digestione la provvidenziale evacuazione. La furia si placa in un ballabile rétro guidato dalla fisarmonica della Parkins, mentre Lussier esegue una deliziosa linea melodica alla chitarra solista con timbro cristallino, quasi Telecaster (si tratta in realtà di una Les Paul). Se poi sax e violino intrecciano un motivo quasi medioevale, Osterag si premura d’infastidire la quiete ritrovata con l’emissione di nefandezze campionate, e tutto va per il meglio. Poi, fra isteria e glamour, i tempi pari della batteria tornano a scandire impressioni di un caos ordinato, su cui si conclude anche la seconda parte della performance.

Il primo bis è un brano tratto da Gravity, album del 1980 che rappresenta uno dei migliori momenti del lavoro solista di Frith. Lo incorniciano pernacchi, l’armonica bocca a cui si cimenta Hayward, con aggiunta di urla, ansimi, suoni di martelli pneumatici attutiti, richiami ornitologici e varie amenità. Il secondo bis è una nuova escursione rockettara guidata da un possente riff del basso di Frith fino alla conclusiva citazione di Lost and found, dal primo French, Frith, Kaiser, Thomson. Persi e ritrovati: come attori e spettatori nei meandri sonori di quell’infaticabile scavatore che è Fred Frith.

da: Andrea Coralli, “Navigando sui mari di formaggio”, Auditorium Edizioni, 1996 © Michele Coralli

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