Francesco Antonioni: l’estetica del quotidiano [intervista]

Foto: Fabrizio Intonti

Non ricordo la prima volta in cui ho incrociato Francesco Antonioni; sarà capitato senz’altro ascoltando Radio3, cui presta la voce da anni, benché molto giovane, per i programmi serali. Più tardi, ancora in veste di conduttore radiofonico, l’ho conosciuto ad una prova generale di un concerto al Parco della Musica di Roma. Incontrarlo come compositore, infine, a Milano, in occasione della prima assoluta di un suo pezzo commissionato ed eseguito nell’ambito della stagione 2007 di Sentieri Selvaggi, non è stata una “sorpresa”. Impegnato – come gran parte dei compositori della sua generazione – in una costellazione di attività parallele al comporre (con un curriculum di tutto rispetto, peraltro), Antonioni fa di necessità virtù e concepisce una musica che, protesa all’ascolto essa stessa, capta le interrelazioni del quotidiano e si fa crocevia consapevole di esperienze molteplici, con un’appassionata attitudine comunicativa immune, tuttavia, da furbizie propagandistiche a buon mercato.

“Macchine inutili”, che hai scritto per Sentieri Selvaggi a proposito del diritto al dissenso, cita Bruno Munari nel titolo. Come nasce questa tua visione del tema, calata in un contesto concreto e attuale ma nello stesso tempo molto personale?

«Bruno Munari non era propriamente un cultore del dissenso, né un protestatario; aveva molto a cuore, però, l’originalità e l’indipendenza, come si coglie anche dal suo lavoro pedagogico, che incoraggia sempre la creatività. L’attenzione del suo metodo non è rivolta solo al prodotto finito del bambino – che di solito consiste, più o meno, in scarabocchi – bensì al procedimento utilizzato per dare spazio alla creatività. Secondo Munari, dopo aver dato libero sfogo alla propria creatività, il bambino non solo è più felice, ma anche più maturo: impara qualcosa, impara a saper fare qualcosa ed impara, inoltre, qualcosa su se stesso, su ciò che vuole fare e su come realizzarlo. Questo per me è un insegnamento molto valido e attuale: credo moltissimo nell’indipendenza e nell’individualismo, come basi su cui esprimere costruttivamente il proprio dissenso, e li considero una fonte di estrema ricchezza, piuttosto che di dispersione, nonostante tutti gli effetti controproducenti che comportano, e credo che oggi la situazione mondiale sia all’insegna dell’individualismo estremo, che considero una fonte di estrema ricchezza, piuttosto che di dispersione.

In che modo metabolizzi dal punto di vista tecnico questi riferimenti?

«Nella musica che ho scritto per questo concerto faccio riferimento alla corrente musicale del “post-minimalismo” che ha origine in New York dopo la generazione di Philip Glass, Steve Reich ed altri, e che applica i principi del minimalismo, cioè la ripetitività di alcuni disegni, a materiale musicale più complesso rispetto ai semplici patterns dei minimalisti, con grandissimo interesse, in particolare, nei confronti del gioco ritmico. Questi procedimenti erano già stati descritti in un libro piuttosto famoso di Henry Cowell, nel quale egli afferma la possibilità di applicare ai ritmi la stessa ratio esistente tra gli intervalli musicali basati, come sappiamo, su rapporti matematici. Un ritmo utilizzato molto spesso nello schema di Cowell, e che ho impiegato nel mio brano, corrisponde all’intervallo di 2ª, ossia il 9 su 8, abbastanza complesso da scrivere perché far stare insieme 9 e 8 richiede il ricorso a trucchi nella scrittura ritmica.
Il titolo cita le “Macchine inutili” di Munari, sculture molto eteree, sognanti, affini a certe opere di Alexander Calder, che ha fatto un lavoro simile qualche anno dopo Munari, senza che nessuno dei due fosse a conoscenza dell’altro. Il mio pezzo, però, è molto più energico, più forte e, per alcuni versi, forzato: ciò che hanno in comune è il senso della macchina come gioco, come oggetto creato per nessuno scopo pratico, bensì soltanto estetico. Questo potrebbe portare a una deriva dell’estetismo più sfrenato e l’idea di calarlo in un contesto diventa, dunque, la chiave di volta. Ecco perché non si tratta di un oggetto inutile in sé, ma di una macchina, polemicamente e intenzionalmente privata della sua ragione costituente, cioè del suo essere utile a qualcosa.
Le macchine con le quali io intendo descrivere il movimento ciclico e ripetitivo sono accostate, inoltre, ad alcune melodie molto lente che dovrebbero comunicare un’idea di prospettiva e di distacco. Il pezzo, quindi, si sviluppa interamente per registri: l’uno, molto concitato, della coazione meccanica a ripetere, l’altro che crea una distanza quasi glaciale dal movimento e immobilizza tutto su melodie distanti, assenti e non espressive, ferme e con pochissimo vibrato; non melodie d’opera ma, in qualche modo, linee di armonia.

In altre opere il tuo immaginario compositivo attinge alla mitologia, alla letteratura, all’incontro con la musica popolare. Da cosa scaturisce la “scintilla” che ti induce a scrivere un pezzo?

«Appartengo a una generazione, oltre che ad un gruppo di persone, tra cui gli amici di Sentieri Selvaggi ed altri – anche non musicisti – che ascolta molta musica di diversa provenienza. Oggi l’accessibilità alle forme musicali è enorme, ma lo era anche dieci anni fa, benché meno pubblicizzata, per cui i miei ascolti spaziano dal jazz alla musica classica, passando per la contemporanea, il rock e la musica popolare; in maniera differente, certo, perché mettono in azione differenti parti del cervello e del cuore. Tuttavia non capisco la schizofrenia di alcuni compositori miei coetanei o, forse, di qualche decina d’anni in più, che quando ascoltano accedono a musica di ogni genere e quando scrivono, invece, si limitano ad un certo repertorio e ad una tradizione determinata – una delle tante.
Fatta questa premessa, la scintilla per me non scocca mai dal voler mescolare più mondi insieme; il più delle volte, nasce da uno stimolo intellettuale e non musicale. Quando poi vado a rendere musicale questa idea non mi faccio veramente nessun problema di coerenza: il rigore c’è, ma la coerenza con se stessi mi sembra qualcosa di molto presuntuoso che non mi appartiene.
Per me è importante che la musica non sia qualcosa di separato dal mondo di tutti giorni. E il mondo di tutti i giorni – lo sostengo con molta forza – non è soltanto quello del fare la spesa e le pulizie di casa, ma riguarda anche, per esempio, la lettura di romanzi e le corrispondenze fra la quotidianità e la letteratura o la musica. Mi sta molto a cuore che l’esperienza estetica non sia costituzionalmente diversa dall’esperienza quotidiana, proprio come Munari ha teorizzato in maniera esemplare: il designer crea oggetti che entrano sì a far parte della vita di tutti i giorni ma, non per questo, devono essere brutti; devono abbellirla, piuttosto, e assumere in essa un valore etico. Perché – sembrerà una banalità – ma il bello è molto meglio del brutto, il benfatto è molto meglio del malfatto, il perfetto è molto meglio dell’imperfetto. E questo, davvero, non ha niente a che vedere con il lusso, bensì con il vivere appieno la vita che ci è dato di vivere.

Qual è la reazione del pubblico a questa proposta di lettura?

«Non ho così tanta esperienza di feedback nella mia musica, però posso parlare di me come ascoltatore. Credo che il nostro tempo viva un problema abbastanza serio: l’esperienza musicale avviene in luoghi che non sono luoghi deputati. Voglio dire che è tutt’altra cosa ascoltare una sinfonia di Beethoven in sala da concerto, invece che nell’iPod. Il più delle volte, però, la fruizione musicale è fruizione di prodotti in scatola e l’arte, la grande arte del passato, in scatola non ci sta, non ce la puoi far stare: hai sempre un’esperienza limitata. Ho un iPod anch’io, col quale ascolto tanta musica: ma se molta musica ci sta bene, molta, d’altra parte, ci sta male. Va benissimo la ambient, per esempio: anche se ti trovi nel mezzo della campagna o in desolanti colline, voli nella stratosfera, su Marte o su Nettuno. Questa è una banalizzazione, un’estremizzazione della necessità che l’arte entri nella vita di tutti i giorni, ma la ricchezza di esperienza che tu puoi fare ascoltando una sinfonia di Beethoven, seduto in sala per quarantacinque minuti, concentrato soltanto sul suono mentre la tua mente è libera di vagare, di partire dal suono e ad esso ritornare (perché è impensabile che si possa essere concentrati per tutti i tre quarti d’ora di una sinfonia di Beethoven; tuttavia, anche nel momento in cui non sei concentrato, hai sempre una relazione con quello che senti), ebbene, questa è un’esperienza che credo ogni persona debba fare, proprio perché abbia la dignità di chiamarsi uomo o donna; di chiamarsi, insomma, essere umano.
La musica, a differenza di altre forme d’arte, come la letteratura, la poesia, l’arte figurativa, propone un’esperienza che mi sembra più forte di tutte le altre, perché tu non puoi essere indifferente quando vieni esposto alla musica: se la musica non ti piace è quasi impossibile rimanere seduto, l’istinto è di andartene; anche quando non ti piace, soprattutto quando non ti piace, non puoi rimanerle impermeabile. Da un quadro che non ti piace basta distogliere lo sguardo; una poesia che non ti piace non la leggi, la dimentichi, e via. La musica, invece, richiede la compartecipazione di chi ascolta. Di questo, secondo me, bisogna essere molto consapevoli quando si fa il compositore: tu stai per rubare dei minuti di vita di una persona: se li rubi, fa’ come Robin Hood. Fallo, cioè, con uno scopo nobile.

E tu a che cosa tendi nel tuo percorso di ricerca musicale?

«Tendo all’onestà e alla trasparenza. Esistono molti modi di nascondersi, oggi, con le tecniche di composizione. Una volta ho scritto un pezzo che è stato eseguito alla Biennale di Venezia nel 2001 e che verrà ripreso tra due settimane a New York in un festival: un quartetto d’archi (Morphing, N.d.R.) costituito interamente da citazioni e trasformazioni continue di un quartetto di Bartók, di uno di Beethoven, della Suite lirica di Berg, di un canto popolare siciliano e di un saltarello medievale, da cui tutto prende l’avvio. Di mio c’è qualcosa come un 5% delle note ed è stata, dal punto di vista psicologico, un’esperienza terrificante: sono molto contento di averla fatta ma non la ripeterei.
D’altro canto, sono perfettamente consapevole del fatto che oggi è difficile che abbia cittadinanza la confessione del proprio animo – il cosiddetto “urlo espressionista” – perché sono richiesti un’educazione e un pudore maggiori, o forse io, con il mio carattere, richiedo all’arte un pudore e un’educazione che vadano oltre l’effusione incontrollata. Quindi, tendere all’onestà significa per me dare alla musica un contenuto sentimentale, laddove i sentimenti non sono necessariamente melensi: la poesia può essere – e lo è stata – poesia di guerra, poesia religiosa, poesia erotica, ma può essere anche poesia di rabbia, di sconforto, di dissenso. Lo stesso vale per la musica: l’importante è che dia voce ai sentimenti che non potrebbero trovare espressione in altra maniera, e che essi siano il più possibile trasparenti; che si faccia capire, cioè, senza infingimenti, che cosa si vuole dire nel minor numero di passaggi possibile.

Quindi hai fiducia nel fatto che in questo momento storico la musica possa avere una valenza etica e engagé, ovviamente non in senso noniano o manzoniano?

«Credo di sì, ma non credo possa avere un valore politico, se intendiamo la politica come tékhne politiké, cioè come “arte della politica”; non credo che la musica possa muovere masse o rendere consapevole qualcuno della propria condizione di alienato, questo proprio no. Però penso possa farsi portatrice di un grandissimo valore spirituale: essere frutto del pensiero e comunicare pensiero. Pensiero musicale, perché ritengo che la musica non possa rendere trasparente a se stessa una formula matematica o un concetto filosofico. Può, tuttavia, aiutare a problematizzare alcune convenzioni: come ogni arte, la musica non dà risposte, ma pone domande; e le domande, se sono ben poste, possono anche cambiare la vita di qualcuno. La mia è stata cambiata dalla musica.

Vita cambiata dalla musica: quanto ha influito il contatto con un signore come Hans Werner Henze, di cui sei assistente, o le esperienze di studio con compositori notevoli?

«Sono convinto che la tecnica musicale si impari studiando; l’arte, invece, si apprende per osmosi: bisogna essere permeabili all’arte e farsi penetrare dal messaggio artistico. Da questo punto di vista conoscere gli artisti in carne ed ossa è importantissimo, perché non hai più a che fare con un libro, un disco, una partitura, ma con una mente pensante; ed è più facile, secondo me, avendo davanti agli occhi queste persone, immaginare che la loro mente non sia costituzionalmente diversa dalla tua. Naturalmente, hanno sensibilità e intelligenza maggiori, sono più capaci di te di penetrare a fondo i problemi, ma non sono degli extraterrestri! E, come loro, ci può riuscire chiunque, veramente chiunque: non credo alla musica come a un dono innato. Certo, ho letto – e penso sia vero – che il cervello di chi suona bene, per esempio, ha una maggiore capacità di coordinare il pensiero e un certo tipo di movimenti; ma credo che il pensiero in quanto pensiero musicale non sia differente in nessuno. Per alcuni il gusto può essere più o meno sviluppato, più o meno rozzo, ma il gusto è comunque lo stesso in chi ascolta la techno in autoradio mettendola a palla per le vie della città e in chi invece ascolta Morton Feldman nella campagna più sperduta: sono due estremi, ma di un qualcosa che è comune a tutti. E constatare che anche i grandi artisti hanno molto in comune con te è un incentivo fondamentale per proseguire su questa strada, per andare in cerca della profondità e non fermarsi in superficie.

Mi sembra che, se le generazioni precedenti hanno associato e continuano tutt’oggi ad associare il mestiere del compositore prevalentemente all’attività didattica, voi nati alla fine degli anni ’60 siate impegnati, invece, in più d’un caso, in numerose attività diverse – per quanto affini – e compresenti, dalla conduzione radiofonica alla direzione artistica, passando per il giornalismo e il ruolo di interprete. Si tratta certo di una necessità di quest’epoca impietosa, ma ritieni che possa essere considerata, nello stesso tempo, il frutto di un’esigenza di comunicare e d’intessere relazioni, cifra che accomuna buona parte della vostra produzione musicale?

«La vita del compositore della mia generazione, di quelli che hanno tra i trenta e i quarant’anni – io ne ho trentacinque, adesso – è una vita grama; però è stimolante, perché non c’è più nessuna forma di sussidio. Dopo aver trascorso un anno a Londra – dove la competizione e le prospettive sono ancora più infami per chi non viene da una buona famiglia – mi sono reso conto che al giorno d’oggi vivere di un lavoro che ti piace è un lusso, un lusso che può costare caro. Diciamolo: io non posso campare di diritti d’autore e di commissioni; è impensabile fare il compositore a tempo pieno, se non in casi straordinariamente fortunati; Michel van der Aa è l’unico, credo, degli under 40 che riesca a vivere così. Ho la fortuna, però, di fare lavori che hanno a che vedere con la musica – come l’impegno alla radio – e che richiedono competenze musicali – come l’assistere Henze. Mi ritengo un privilegiato, in questo, perché credo che sia importante poter vivere il proprio tempo, cioè avere la curiosità di leggere, di imparare, di conoscere, e la capacità di comunicare; e qui non mi riferisco alla comunicazione aziendale, nella quale devi vendere frittate e mostrare alla gente entusiasmo per le frittate che offri… Penso all’entusiasmo per la vita; e la vita è, appunto, sapere, conoscere, imparare, soffrire, fare esperienze. Quando fai esperienza della vita, in qualsiasi forma, vivi anche un’esperienza estetica. Saper comunicare questo entusiasmo è una possibilità che, secondo me, tutti hanno: bisogna trovare il coraggio e la forza di tirarlo fuori da sé.

ottobre 2007 © altremusiche.it

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