Evan Parker. Le attitudini di un libero conversatore

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Michele Coralli
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Ci sono luoghi che diventano dei veri e propri crocevia musicali capaci di catalizzare culture di diversa estrazione e di determinare la nascita e lo sviluppo di nuovi generi. Si tratta di luoghi dai quali si dipanano attitudini e impulsi in grado di determinare influenze durevoli nel tempo. Se il cappello generalista di scuola o scena serve ad affrancare diversi musicisti a un’area omogenea, sia in senso geografico, sia in senso stilistico, allora nella Londra della metà degli anni Sessanta possiamo individuare un centro nevralgico per molti ambiti musicali. In quell’area, all’interno della nebulosa diffusa di ciò che ancora veniva definito musica jazz, sono state convogliate energie cariche di una straordinaria forza centripeta, che ha dato vita a un gran numero di progetti aventi come fine quello di far affermare una prassi del fare musica che assecondava ben pochi compromessi e che per questo divenne nota come improvvisazione radicale. Un tipo di atteggiamento legato allo sviluppo del jazz in senso progressivo si può dire che in Europa inizi in maniera omogenea proprio nella swinging London. È all’interno di questo Big Bang che si inserisce l’attività di uno dei più importanti musicisti della scena radicale, di tutto il jazz e – tanto per uscire dai soliti orticelli – della musica del nostro tempo: l’inglese Evan Parker.

Una scena: Londra
Siamo attorno al 1966 e il free jazz ha trovato i suoi approdi anche nel vecchio continente attraverso i traghettatori Coltrane, Dolphy e Coleman, capaci di condurre un’intera generazione di jazzisti sulle rive della nuova new thing. Sono sbarcati poi Archie Shepp, Cecil Taylor, Don Cherry, nonché Albert Ayler, Anthony Braxton con l’Art Ensemble of Chicago, che tra Parigi e la Scandinavia gettano i semi di una nuova rivoluzione, capace di contenere in sé nuovi stimoli musicali e rivendicazioni politiche dall’inedito profilo. Da Chicago a Londra una nuova schiera di musicisti è in fermento, desiderosa di sperimentare un linguaggio che trova le sue radici nella musica nera radicale, ma che vuole evolvere verso sistemi personali, densi di commistioni e di punti di contatto con le realtà delle sperimentazioni artistiche e delle istanze degli affermati movimenti di liberazione. Portano a vario titolo una nuova linfa sperimentale tutti quei gruppi legati a un nuovo tipo di creazione musicale basato sull’aleatorietà e l’improvvisazione, realtà disperse in giro per l’Europa come il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza di Franco Evangelisti a Roma, il network Fluxus sparpagliato tra Europa, Stati Uniti e Giappone, AMM di Cornelius Cardew a Londra, compositori di estrazione più tradizionale come l’americano John Cage e il tedesco Karlheinz Stockhausen, che si dimostrano interessati ai multiformi stimoli presenti al di fuori del mondo dell’accademia.

Uno sguardo d’insieme alla scena jazz inglese dell’epoca – e a tutto ciò che contiene i germi di un nuovo approccio alla realtà musicale ormai in rapido divenire – porta alla luce personaggi come Mike Westbrook a la sua big band, la cui capacità di rimpasto non è volta al radicalismo spinto, ma a un personale stile di rielaborazione di materiali di varia estrazione: dal cabaret alla musica tradizionale inglese, tanto per dare alcune coordinate. Attorno a lui gravitavano John Surman, virtuoso sperimentatore anche se raramente urticante e Mike Osborne, sax straziante e malinconico. Un tipo di ispirazione densa e pastosa viene portata dal bianco sudafricano Chris McGregor e dai suoi collettivi Blue Note e la leggendaria orchestra Brotherhood of Breath (che porta con sé l’urgenza di rivendicare una pari dignità per tutti quegli strati di popolazione nera sudafricana: non ultimi una folta schiera di musicisti vessati, non solo nella loro attività artistica, dal regime dell’apartheid). Quanto la musica di McGregor (e di molti appartenenti alla sua orchestra come il compianto Mongezi Feza) sia stata amata e assimilata da personaggi come Robert Wyatt è noto a chi, dopo i Soft Machine, ha seguito la carriera dello sfortunato batterista a partire da Rock Bottom. Gli stessi i Soft Machine, sempre in ambito londinese contribuiscono al di sopra di un’altra barricata a portare quell’attacco al cielo, al fine di rendere fertili i nuovi terreni di scambio tra il mondo del jazz (e del sempre più al manieristico hard bop) e il mondo di un certo rock alternativo, costruito attorno ad uno psichedelismo improntato sempre più allo sballo fine a se stesso.

Foto: © Caroline Forbes

Spontaneous Music
Un concetto capace di farsi strada in questi anni con tutta la sua straordinaria carica innovativa è quello di musica spontanea, che prende le mosse dal fervore energetico e dalla libertà strutturale che il free jazz aveva indicato come strada possibile. Attraverso lo spontaneismo in musica, ossia la determinazione di ambiti di improvvisazione non veicolati, si giunge alla definizione di veri e propri eventi sonori estemporanei, non pianificati e quindi imprevedibili, tendenti per loro stessa natura alla radicalità, nel senso di un’assoluta libertà di intenzioni, impossibile da controllare. L’improvvisazione, i cui natali e maturazioni non si esauriscono certo all’interno delle già note pratiche jazzistiche, trova nei contesti “spontanei” il terreno in cui svolgere il suo più consistente ruolo organizzativo. Si parla qui di libertà per dare vita a una forma, che inevitabilmente avrà sempre maggiore attinenza con tutto quello che c’è di inconscio nella creazione di un’opera d’arte. La produzione di musica in maniera estemporanea è frutto in primo luogo di un’ansia di scoperta, ma soprattutto di un’immediata urgenza di comunicazione tra musicisti, al fine di trovare un istantaneo terreno di confronto. Proprio per questo, per riferirsi a questo tipo di esperienze, si è spesso parlato in modo estremamente efficace di conversazioni al posto dell’ormai logoro e poco referenziale jam session, per definire un incontro tra musicisti su una base estemporanea, o meglio spontanea.

È questo il contesto “climatico”, qui brevemente abbozzato, in cui si colloca Evan Parker (Bristol, 1944), musicista creativo e sassofonista con un’autentica predilezione per il soprano e, in seconda istanza, per il tenore. La sua carriera inizia con lo studio del sax contralto ma, sotto l’influenza dell’eroe Coltrane, suo riferimento naturale, passa al soprano. Il trasferimento da Bristol a Londra nel 1953, successivamente a Birmingham, dove Parker studia botanica per due anni, segna il primo avvicinamento al free jazz che avviene attorno al 1964, attraverso la collaborazione con Howard Riley. Il successivo ritorno nella capitale del Regno è segnato dall’incontro con musicisti come John Stevens (batterista), Kenny Wheeler (trombettista canadese trapiantato a Londra), Paul Rutherford (trombonista), Trevor Watts (sassofonista alto e soprano) e Derek Bailey (chitarrista, teorico della free improvvisation e inventore dell’accordatura aleatoria sul suo strumento). Assieme a questi personaggi Parker dà vita, tra il 1966 e il 1967, al suo primo gruppo interamente dedito alla pratica dell’improvvisazione: Spontaneous Music Ensemble (SME). Il gruppo tiene regolarmente concerti presso il Little Theatre Club, alternando diverse formazioni che affiancano al duo Parker/Stevens musicisti più o meno di passaggio come i contrabbassisti Barre Phillips e l’austriaco Peter Kowald. Le prime registrazioni di Parker risalgono a questo periodo di fruttuosi incontri. Attualmente sono di non facile reperibilità, ma non mancano le eccezioni, come quel Machine Gun del Peter Brötzmann Octet, di cui Parker è entrato a far parte nel 1968, che rimane tutt’ora, dopo oltre trent’anni, uno dei migliori longseller di FMP. Nel 1968 però il sassofonista accantona momentaneamente l’esperienza Spontaneous Music, che continuerà a varie riprese sotto diverse formazioni per alcuni anni. Da annotare invece che la collaborazione con Stevens avrà seguito fino a poco prima della morte del batterista avvenuta nel 1994. A partire dalle prime mosse dello SME il duo Parker/Bailey diventerà la cellula da cui germineranno esperienze fondamentali come la Music Improvisation Company (MIC), che dal 1968 al 1971 comprende in organico Hugh Davies (compositore, divulgatore di musica elettronica e costruttore di strumenti lowtech) e il percussionista Jamie Muir (noto per la sua successiva militanza nei King Crimson del periodo di Lark’s Tongues in Aspic).

Tra il 1971 e il 1972 Parker entra a far parte anche del trio di Alexander von Schlippenbach e Paul Lovens per sostituire Michel Pilz. Ma, al fine di dare una sintetica panoramica degli spostamenti di Parker durante quegli anni, è anche da segnalare la sua presenza tra i sassofoni delle maggiori orchestre che hanno avuto nell’improvvisazione uno dei cardini genetici costitutivi: la Globe Unity Orchestra, la London Jazz Composers Orchestra e la Berlin Contemporary Jazz Orchestra, nonché la già citata Brotherhood of Breath di Chris McGregor, da una branchia della quale nasce il Louis Moholo/Evan Parker Quintet. Esperienze più casuali e nate da altri legami, ma non per questo meno significative, sono nate dalla partecipazione di Parker al quartetto costituito da Peter Kowald e dagli svizzeri Irene Schweizer e Pierre Favre attorno al 1968.

Evan Parker e Han Bennink. Foto: © Caroline Forbes

Cooperative e libere produzioni
In analogia con altre organizzazioni europee di musicisti, nate con lo scopo di sostenere e promuovere l’attività professionale dei creatori di suoni sperimentali, viene costituita a Londra nel 1970 la Musicians’ Co-op, che condivide i medesimi scopi e una struttura simile alle gemelle Instant Composers Pool (ICP) – alla cui fondazione avvenuta in Olanda nel 1967 hanno partecipato, tra gli altri, Misha Mengelberg e Han Bennink – e la tedesca Free Music Production (FMP), nata nel 1969 per merito di musicisti come Alexander von Schlippenbach. Il braccio discografico della Musicians’ Co-op è Incus, etichetta che si inserisce in un sempre più crescente

panorama di piccole ma agguerrite realtà produttive, che vogliono seguire gran parte del processo produttivo, sganciandosi dai costosi processi promozionali delle grandi case discografiche attraverso la forma della cooperativa non-profit. Lo scopo è quello di cercare di determinare un nuovo rapporto di organizzazione produttiva (ma anche distributiva), tendente a favorire la libera circolazione dei musicisti e dei prodotti musicali. Il discografico Martin Davidson, responsabile della piccola etichetta londinese Emanem, ha posto in risalto come la realtà dell’improvvisazione e il supporto discografico siano stati in quel tempo perfettamente complementari, ovvero “simbiotici, quasi fossero state inventate l’una per l’altro. “L’atto di improvvisare – dice Davidson – corrisponde a riempire il tempo con la musica, qualcosa che potrebbe essere chiamata composizione in tempo reale, ovvero qualcosa che ha, a maggior ragione, diritto e necessità di essere registrata più di qualunque altra cosa” (cit. in Afterthoughts di Francesco Martinelli, vedi sito Internet).

L’ascolto della musica improvvisata nella sua versione riprodotta è importante oggi come allora, quando quei dischi in vinile circolavano non numerosi, riproducendo con i loro fruscii e le loro imperfezioni un tipo di musica caratterizzata da ambiti dinamici molto ampi. In questo senso l’avvento del Cd ha reso possibile, attraverso le ristampe, un tipo di ascolto eccezionalmente migliorato nella maggior parte delle registrazioni, riuscendo a rinnovare l’interesse nei confronti di questo tipo di produzioni. Etichette come Emanem, Incus, Ogun, FMP e ICP iniziano pubblicare dischi e, in seconda istanza, a diffondere stili, promuovendo incontri tra i nuovi protagonisti della scena radicale.

È forse in virtù di questo rapporto sinergico che c’è tra la musica improvvisata e la produzione discografica che risiede l’urgenza, da parte di molti musicisti tra cui lo stesso Parker, di mettere su vinile gran parte del materiale registrato nelle proprie continue collaborazioni. Questo spiega la mole dell’imponente discografia del sassofonista che conta più di 150 dischi, tra partecipazioni, lavori a suo nome, progetti collettivi e produzioni. E senza ombra di dubbio sarebbe difficile poter parlare di un musicista come Parker senza far riferimento a qualche supporto, che ci possa render edotti della complessa stratificazione delle tecniche e dei linguaggi che escono dal suo sax soprano. Anche se occorre attendere fino al 1975 per i primi Saxophone solos (Incus 19), registrati in completa solitudine dal musicista, non manca già nelle prime partecipazioni a progetti collettivi l’affermazione di quei tratti stilistici che Parker non tarderà a sviluppare in senso sempre più personale. L’esperienza discografica di Parker in Incus, in qualità di co-proprietario assieme allo stesso Bailey, Oxley e al giornalista Michael Walters, si interrompe nel 1985, pur lasciando intatta l’esigenza di continuare a porre in relazione il proprio lavoro con tutte quelle piccole etichette con le quali ancora oggi riesce a mantenere un controllo sul proprio esito produttivo. Sono molte infatti le divisioni discografiche che annoverano Parker in catalogo: dalla già citata FMP alla giapponese Jazz In, dalla californiana Metalanguage a Materiali Sonori, da Intakt a Victo, da Emanem a ECM, e non ultima la nuova etichetta costituita nel novembre del 2001 dallo stesso Parker, Psi, con la quale ha dato alla luce il recente disco in solo Lines Burnt in Light.

Coerentemente con la propria scelta produttiva, il distacco mantenuto con le grandi case discografiche non è mai venuto meno. Come dice lo stesso Parker: “Il mio background si è formato durante gli anni Sessanta, in un particolare clima politico. Allora l’idea era che i musicisti dovessero avere il controllo della loro produzione musicale. Per me è stato interessante lavorare con etichette sotto il controllo di musicisti o addirittura di loro proprietà, piuttosto che con grosse compagnie. È stato più facile e ideologicamente più comodo.” (cit. da Evan Parker, Esplorando l’occasione, a cura di Fabio Martini, “Auditorium” n.6, 1991). La coerenza in ambito artistico non è per forza di cose una vocazione giovanile, capace di sbiadire con il sopraggiungere della maturità e della conseguente necessità di cedere ai compromessi, che nella musica possono essere infiniti. Al contrario, Evan Parker sembra uno di quelli in grado di dimostrare di essere stato capace di mantenere la stessa rotta, senza puntare all’ovvio o al già sentito.

Oltre il free
Tornando al periodo della Music Improvvisation Company, è importante constatare quanto esperienze come questa segnino il difficilissimo tentativo di superare, non solo il concetto di free jazz come punto di massimo sviluppo sperimentale a cui è giunta la musica afroamericana, ma anche come tentativo di travalicare certa musica contemporanea, con particolare riferimento a tutta quella branca cresciuta nel mito dell’aurea cageiana, che iniziava a contraddistinguere massima parte delle esperienze contemporanee dell’epoca, soprattutto in area anglosassone. La diffusione in terra britannica delle esperienze nate dalla mente creativa di John Cage, spetta in massima parte a Cornelius Cardew, che all’interno del gruppo AMM, ma non solo, contribuisce all’avvicinamento da parte di molti musicisti a concetti quali alea e indeterminazione. Dal canto suo la libera improvvisazione di Parker già con MIC si vuole spingere verso qualcosa di meno vincolante rispetto al concetto di indeterminazione tout court, che mantiene comunque legato l’interprete ai vincoli compositivi indicati da una pre-determinata idea organizzatrice.

In questo senso l’incontro con un personaggio come Cecil Taylor, pianista afroamericano modello ideale per Parker, è cruciale. Nonostante sia paradossalmente tardivo rispetto alle rispettive vicende biografiche, l’appuntamento con il vulcanico Taylor, incontenibilmente votato alla creazione estemporanea, segna il punto di maggior contatto costruttivo tra le tendenze centripete americane e quelle radicali inglesi. L’ascolto di The Hearth (FMP, 1988), un’ora di performance consecutiva, consente di mettere a nudo il dialogo dirompente tra i due improvvisatori (ad essi si aggiunge Tristan Honsinger, violoncellista americano già nel giro ICP, Company e Globe Unity). È oggettivamente una musica dura, a tratti violenta, che diventa una delle migliori dimensioni di sinergia improvvisativa non pianificata. Un torrente di suoni in pieno dinamismo interattivo, in cui la mediazione tra i musicisti viene costruita sulla base di una continua verifica degli intenti, quasi una sorta di costante feedback, che viene impostato volta per volta per trovare nuovi terreni di iterazione: un viaggio verso il futuro del jazz non ortodosso, oltre il free.

Workshop in progress
Appartengono al gergo di quegli anni parole che traducono le disparate esperienze di tipo creativo in vocaboli come happeninig, workshop o laboratorio, che si inseriscono nel quadro di iniziative come il Total Music Meeting o il Workshop Free Music (di matrice FMP). Alla luce di analoghi momenti collettivi nasce l’esperienza Company, che raccoglie l’eredità della vecchia MIC. Partorita direttamente all’interno dell’ambito della cooperativa Bailey/Parker, la Company ha un percorso segnato dall’alternanza di musicisti eterodossi di varia provenienza: da Anthony Braxton a Leo Smith, da Steve Lacy a Lol Coxhill, da Misha Mengelberg a Steve Beresford. In varie formazioni, che vanno dal duo all’ensemble di dieci elementi, la Company anima la scena impro europea a partire dal 1976, pubblicando lavori che entrano a far parte della documentazione Incus, il cui catalogo si amplia a ritmo progressivo. L’idea stessa che sta alla base del progetto rende chiaro il concetto di workshop come lo intende Derek Bailey: “Company ha come riferimento l’improvvisazione. Non è un modo di presentare un particolare genere di musica. E nemmeno un modo di stabilire un’identità individuale o di gruppo. Riguarda l’esplorazione e lo sfruttamento di una modalità di fare musica” (cit. dal catalogo Company Records di Incus).

Quindi non si tratta di una mera ricerca stilistica ma dello sviluppo di un ambito in cui vengono ricercate da parte dei musicisti le migliori affinità reciproche sulla base di linguaggi flessibili. La Company sviluppa un tipo di rapporto tra i musicisti che non solo Evan Parker, ma tutta una generazione ha interiorizzato nel proprio modo di improvvisare musica. La ricerca che sta alla base del concetto di workshop (esteso poi alle collaborazioni successive) avviene più sulle “intensità di intenzioni” che nell’ambito propriamente espressivo, tanto che la libera improvvisazione assume il senso della già citata libera conversazione, durante la quale i musicisti accatastano, sopra quello che già viene suonato, pensieri musicali in continuo sviluppo. Uguaglianza e cooperazione sono i cardini attraverso cui un buon musicista/conversatore imposta, per usare termini cari alla linguistica, la propria parol (stile personale) sul tessuto appena disegnato della langue (improvvisazione comune).

Già a partire dal primo periodo Incus, Parker inizia una serie di collaborazioni che periodicamente prendono piede per brevi progetti o per più o meno estese cooperazioni. La più duratura è quella che lo lega al percussionista (oltre che grande sperimentatore di suoni) Paul Lytton, capace di ampliare l’uso timbrico dei propri strumenti al fine di contribuire a far cadere alcune comuni considerazioni sul confine che risiede tra ciò che si intende come suono e ciò che viene percepito come rumore. Il sodalizio del duo Parker/Lytton dura continuativamente fino al 1980, anno in cui si costituisce il trio con il bassista Barry Guy, che, attraverso varie collaborazioni porterà alla costituzione del più recente Electro-Acustic Ensemble, al cui interno hanno trovato posto anche Philipp Wachsmann, Walter Prati e Mario Vecchi. Sempre del filone più “elettronico” fanno parte i progetti collaterali più recenti di Parker, sempre più interessato alla scoperta di iterazioni possibili tra il suono e i suoi trattamenti elettronici in tempo reale. Da tali presupposti sono nate esperienze come quella con Thurston Moore (Sonic Youth) e Walter Prati, che ha prodotto lo sperimentale The Promise (Materiali Sonori, 1999), improntato alla manipolazione elettronica, come nuovo terreno di iterazione. In questo ambito si attendono da parte del Nostro nuove esplorazioni in futuro.

Strutture predefinite vs libera improvvisazione
Diversi sono gli approcci possibili al mondo musicale di Parker se prendiamo come spunto la sua discografia. Ma il modo migliore di accostarsi a questo straordinario musicista è senza dubbio quello di ascoltarlo dal vivo. Seppur glaciale e immobile nella sua concentrazione, non potrà non sorprendere il suo tipo di relazione mentale con l’ambiente sonoro in cui viene chiamato ad eseguire la sua musica. Sia in gruppo, che in solo, Parker non smette di ricercare strade di nuove possibili iterazioni con altri musicisti o con la dimensionalità dello spazio che lo circonda, in una ricerca costante di stimoli controllati, come si è accennato prima, da una sorta di feedback mentale. Le frasi o le brevi cellule ritmico/melodiche vengono in continuazione rimesse in discussione mediante revisione e riproposta immediata. In questo senso i pattern di qualsiasi tipo di struttura predefinita vengono negati a favore di una improvvisazione libera da vincoli strutturali ed espressivi.

Naturalmente sono un’infinità le cifre stilistiche che Parker mette sul piatto per dar respiro alla sua creazione estemporanea. Una delle più evidenti e di maggior presa è senza dubbio l’effetto di inesauribilità determinato dalla respirazione circolare. La tecnica, trasferita da alcune prassi popolari tipiche come quella che accompagna strumenti come il didjeridoo aborigeno e le launeddas sarde, impone una continuità al sax tale da generare se non ipnosi, straniamento e perdita di orientamento sonoro.
In un’esibizione di due anni fa a Milano, Parker suonava in un ensemble estemporaneo di cui facevano parte Walter Prati, Paolo Damiani, il suonatore di launeddas Carlo Mariani e un suo allievo. L’assoluta naturalità con cui le atmosfere popolari venivano fuse in un contesto “jazzistico” faceva da contraltare al disorientamento prodotto dalla potenza inusitata e dalla ricchezza di stimoli reciproci che gli strumenti si davano. Ma l’effetto cornamusa/launeddas/didjeridoo non è che una delle tante scelte timbriche che trovano posto nello stile parkeriano. Appartengono al suo ricchissimo dialetto strumentale tutta quella serie di suoni aggiunti al di sopra di quelli principali come i loro armonici, i battimenti generati da contrasti di frequenza, i suoni parassiti, le note eseguite in accordo (che segnano il passaggio da uno strumento tradizionalmente monodico a uno capace di creare armonie inconsuete) e i crepitii continui (che determinano un linguaggio a tratti violento e straziante).

Tutte queste caratteristiche, assieme alla respirazione circolare così spesso utilizzata, sono il frutto di un dominio tecnico assoluto non solo sullo strumento, ma anche sull’apparato corporeo preposto all’utilizzo dello strumento medesimo, in una simbiosi che ha quasi del sorprendente.
Come si è visto l’idea di iterazione è congeniale a Parker anche all’interno dei contesti elettronici, ovvero in quegli ensemble dove il suono del gruppo viene sottoposto a trattamento in maniera estemporanea: le cosiddette live electronics diventano assolutamente strutturali al concetto di improvvisazione in quanto producono conversazione tra i musicisti, nel momento in cui la parola/suono viene immediatamente udita, recepita e riproposta, dopo essere stata trasformata all’interno del circuito elettronico allestito. Nell’ElectroAcoustic Ensemble Lytton, Philipp Wachsmann, Prati e Marco Vecchi creano forme di elaborazione del suono (o sound processing) mentre gli instancabili Parker e Barry Guy eseguono la loro performance in continua relazione con quello che avviene alle loro spalle. Un concetto di circolarità che si fonde perfettamente con la continuità sonora espressa dal sax soprano.

Nuovi approdi
Le ultime collaborazioni di Parker, inaugurate con l’accostamento ai nuovi trattamenti del suono, si ramificano in progetti che lambiscono la nuova scena elettronica, accanto progetti che si nutrono di stili esecutivi di matrice “popolare” come le già citate collaborazioni con i suonatori di launeddas e la stimolante combinazione con la cantante siberiana Sainkho Namtchylak, uno dei rarissimi casi (forse unico) di ricerca, da parte del sassofonista, di una relazione costruttiva con la voce umana. Le diplofonie della ruvida voce di Sainkho, che si basano sulle modalità esecutive tradizionali dell’area di Tuva in Siberia, trovano un corrispettivo nel sax di Parker, che fa suoi molti degli input lanciati dalla cantante, secondo un già consolidato schema di lavoro.
Nella recentissima nella collaborazione con Jah Wobble (Passage to Hades, 2001) sia il soprano che il tenore di Parker sono chiamati a calarsi in un ambito sonoro di trance elettronica, incardinata sulla ripetitività ritmica tipica delle movenze dub, care all’ex bassista dei Public Image Ltd. Senza dubbio qualcosa di nuovo per il Nostro, sempre in costante movimento alla ricerca di inediti terreni di confronto.

In trent’anni e più di libere conversazioni Evan Parker non ha mai smesso di tracciare nuove strade attraverso un innato spirito sperimentale, nutrito dalla cooperazione, ostinatamente ricercata, con tutti quei musicisti che lo hanno accompagnato nel corso di tutta la carriera. La ricerca fine a se stessa non è mai stata l’obiettivo primario di Parker, che ha lasciato scaturire in senso quasi spontaneo tutto quel linguaggio complesso, stratificato, polimorfo che oggi conosciamo. Se si considera come si sia potuto arricchire il linguaggio e la personalità di Parker attraverso il continuo rapporto con altri musicisti, le sue reiterate manipolazioni della materia sonora con l’ambiente di esecuzione, la sua attenzione a ciò che viene percepito dagli ascoltatori, allora si può comprendere come un certo modo di vivere la musica in maniera collettiva, nel senso più ampio, possa essere accreditato – senza il dubbio di essere smentiti – come il modo più creativo di pensare la musica stessa. Lontano da narcisismi solipsistici, da torri eburnee e da meccanismi produttivi che affievoliscono sempre più il lume della creatività, Parker, in posizione stabile con le gambe ben piantate sul pavimento e con le mani che cingono il suo sax in continua e circolare attività, sembra aver indicato qual’è il reale senso della libertà in musica. Quella libertà che non risiede nelle opportunità di un libero mercato, bensì nella libera conversazione tra musicisti, costruita sulla cooperazione solidale, come ogni migliore utopia che si rispetti.

da: “Blow Up”, n.47, aprile 2002 © Tuttle Edizioni / Michele Coralli

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