A Le Havre sbocciò un ciliegio, ma nascondeva amarene

Miracolo a Le Havre (Le Havre) di Aki Kaurismäki (2011)

I grandi registi s’inquadrano già dalle prime inquadrature. Per alcuni rappresentano la soglia del ritorno, il desiderio di spalancare, tramite la prima immagine, la porta del mondo che si sente proprio ed essere accolti dalla stessa atmosfera di sempre. Per altri sono il contatto con una realtà aliena, o l’apparire improvviso e bruto del reale: luoghi in cui c’è chi sente il bisogno di posizionare dei punti di riferimento, almeno quelli personali, e chi semplicemente di osservare o raccontare per comprendere ciò che non si comprende. Per registi ancora diversi l’inizio, e la fine, appongono i sigilli che racchiudono e schiudono il segreto del senso del film. Ma l’incipit può anche essere semplicemente il momento in cui prendere posizione senza temporeggiare, schierandosi.

Esistono però registi un poco più grandi dei grandi perché le loro prime inquadrature sono tutte queste cose assieme. Miracoli di sintesi, e uno l’ormai consolidata poetica di Aki Kaurismäki lo fa avverare a Le Havre. I lustrascarpe Marcel e Chang attendono immobili, figure (quasi) intere in piano americano nelle tipiche fissità catatoniche kaurismakiane, di lucidare qualche calzatura di pelle scesa dal treno indosso ai passeggeri, terzi di gambe inquadrati dal polpaccio alle scarpe, velocissimi e disinteressati al punto che gli occhi dei due ne seguono a fatica gli avvicendamenti: Marcel e Chang, l’uno dal decoroso e semplice abbigliamento vintage, l’altro funzionale e dimesso, sono umili volenterosi fuori posto in un mondo, cui non tengon dietro, di colorate sneakers modaiole e di scarpe sintetiche da pendolari. Un portavalori, vestito con eleganza noir anni ’40 e colla faccia di chi stima il mondo un covo di serpi, è l’unico che si ferma a farsi lustrare le scarpe da Marcel, nonostante sul collo abbia il fiato di un altro figuro noir incappottato loscamente come un gangster e di cui si aspetta la velenosità. Quando, uscito fuori campo, viene seccato a rivoltellate, si percepisce che il gesto rituale di non rinunciare, neanche alla fine, alle proprie abitudini di cura acquisisce, “officiato” da Marcel, il senso di ultimo brandello di permanenza nel proprio mondo: fra persone d’altri tempi (in un Cinema d’altri tempi, che condivide il loro quasi esclusivo straniamento estetico.

C’è pure una locandina vecchio stile, dietro a Marcel…), sopravvissute in un’interezza tutta loro all’alienazione e alle mode del mondo, che difendono con serena rassegnazione e onore il loro posto, i loro punti di riferimento (le posture salde, i contegni pacati, le disposizioni “a schiera“, cifra del regista, sono anche questo) e sanno a cosa vanno incontro. Fuori campo avviene una morte; ma appunto perché scorporata, “smaterializzata”, è come se non riguardasse quell’uomo ma qualcosa che non si vede eppure si sa esserci: quella di “qualcosa” che sta andando a finire male, e basta leggere qualche intervista ad Aki (o vedere questo film) per sapere che tale destino è riservato alla nostra civiltà, che sta dimenticando il senso di solidarietà, dignità e umanità.
Quest’iniziale apologo, scorcio minimo sulle inevitabilità tragiche dell’oggi, sembra porre una premessa disincantata, ma schierata: all’esterno, nel mondo pubblico e sociale (la stazione), addirittura i “poveri diavoli” (così comenta Chang) non possono evitare di stare a guardare le sorti infelici dei loro simili. Gli altri, poi, non sono altro che “folla” anonima: passeggeri frettolosi della vita, perennemente in ritardo.

Tuttavia, questa percezione è destinata a cambiare man mano che Marcel torna, facendo i suoi tragitti ritirati, nel suo quartiere, nei suoi interni preferiti, insomma nel suo microcosmo che brulica di colori, relazioni alla mano e “tipi strani”, tutto fuor che anonimi; ovvero, scenograficamente parlando, nel Cinema di Kaurismaki. Marcel, come altri “buoni” di quel Cinema, apparirà anche sempre flemmatico, “immobile“, maschera d’aplomb, ma i sornioni guizzi di tono e le battute mai plateali (le sue conversazioni con i negozianti di quartiere, con il direttore del centro d’immigrazione, con l’ispettore, con la moglie, le ramanzine a Idrissa) rivelano una vivacità, una prontezza di spirito che si muove sotto all’ironia e all’atarassia necessarie a non perdere la pazienza di fronte al mondo. “Povero diavolo…” immagonisce Chang dopo aver assistito all’omicidio del portavalori…”Per fortuna aveva pagato!” chiosa sbarazzino Marcel. Egli porge una prospettiva giocosa, che svia dal compatimento, perché è uno “che ha capito il gioco” ed è già svicolato dalle realtà più futili, più caduche: Marcel era infatti il protagonista di Vita da Bohème di Kaurismaki (1992), film in cui lui e i suoi amici artisti, d’arte non ci vivevano, semmai di stenti, di pasti e spiccioli condivisi; di solidarietà, certo, ma in un mondo in cui il radicamento armonioso nella realtà non era garantito né dal loro talento (l’espatrio di Rodolfo) né dall’amore (la morte di Mimì). Forse è per questo che -veniamo a sapere in Le Havre- dopo la vita da bohème Marcel scelse quella da clochard, finché non venne raccattato dalla sua donna-angelo Arletty.

Arrivato allo stadio terminale della vita intellettuale, dopo aver pensato e patito così tanto la realtà da aver determinato l’impossibilità di cambiarla e comprenderla con l’Arte, dapprima rinuncia ad essa “depurandosi” e ritrovando nel reale – che è la vita bruta, vissuta nel modo spontaneo che è precluso all’uomo civilizzato- l’essenzalità delle cose e dei bisogni, e poi, dopo essere stato “salvato”, nella realtà passa direttamente a fare le cose, come mobilitarsi spontaneamente, immediatamente, con trasparente purezza morale, per aiutare un ragazzino profugo a raggiungere la madre. Marcel e i personaggi di Kaurismaki non si commuovono (“Hai pianto?” “No” “Bravo, non serve a niente”), e così il suo Cinema non commisera – ché può essere un atteggiamento ricattatorio verso lo spettatore – perché preferiscono mettere in moto la loro sgangherata rete sociale da sottobosco per solidarietà verso coloro di cui riconoscono l’umanità indifesa.

Proprio per queste qualità umane la rinuncia di Marcel alle aspirazioni letterarie e il suo accontentarsi del lavoro più umile che ci sia non sono una degradazione né un’autocastrazione: Le Havre è sì un porto, quindi un rifugio, e il quartiere di Marcel, con tutti i suoi colori e il suo modernariato casalingo, è un ripristino della vivibilità, ma non sono una fuga: Marcel convive con il mondo, con la contemporaneità, lavorando all’aperto; e ad esso, per la sua esperienza di artista e vagabondo, “appartiene” talmente tanto da saper passare la notte fuori, dopo essere giunto a Calais con l’ultima corriera, con assoluta nonchalance su una sedia presa in prestito ad un bar.

Tuttavia forse ha capito che calarsi troppo nel mondo è cancerogeno, perché la realtà, la “vita fuori” è pericolosa: essa in questo film ha addirittura corrotto Jean Pierre Leàud; o per capirci meglio: Antoine Doinel adulto. Lui, il protagonista dei 400 Colpi, emblema della purezza infantile, della libertà d’esprimer la personalità e la voglia di vivere nel mondo (verso le cui sconfinate possibilità Truffaut lo fece correre con la carrellata finale); il personaggio poi ripreso in Antoine e Colette, Baci Rubati, Non drammatizziamo…è solo questione di corna e L’Amore Fugge, seguito sempre come alter-ego del regista ma anche come permanenza, messa alla prova nel corso della crescita, degli ideali di soggettività, rischio e anticonvenzionalità della Nouvelle Vague. Lui, ebbene, morto il suo custode di purezza Truffaut e tornato un semplice Jean Pierre Leàud, a contatto “sregolato” con la realtà dev’essersi abbruttito, dato che è lui che qui a Le Havre fa la spia intollerante e vile denunciando anonimamente la presenza clandestina di Idrissa a casa di Marcel.

Anche se Marcel ogni sera torna nel suo “rifugio”, lui sa quello che avviene là fuori. Non ha bisogno di sposare una cultura della lotta, quella che si documenta minuziosamente per opporsi alle gabole gabbanti della burocrazia e della legislazione. Grazie al suo sofferto rinnovamento morale, evento che ogni Grande Cinema non viola, affidandolo all’intimità e alla privacy del fuori campo (che qui è addirittura fra i due film Vita da Bohème e Le Havre), Marcel ha capito come va il mondo poiché della vita ha sposato l’essenziale, perciò aiuta Idrissa con un volontariato “naturale” che gli è comunicato dalla schietta umanità e che per questo segue un intreccio “avventuroso” talmente diretto ed ingenuo da sembrare assurdo (le frasi con cui “convince” il direttore del centro immigrati), il quale tuttavia pur essendo tale vale come “scarto”: Marcel riesce perché ha quello che a noi manca. Ma la sua ingenuità non è quella del folle, è una distillazione di conoscenza: Marcel di cognome -e al Cinema, attraverso la citazione, il riferimento intelligenti e non inutilmente pop, un nome può essere davvero un destino – fa Marx.

Come Karl, che servendosi della dialettica ridusse tutto il minuzioso sistema di spiegazione della complessità del reale al principio della lotta di classe. Marcel infatti lotta, anche se ha sempre quel fare compassato da “eroe” del cinema classico; e lo fa per il solo essere in’opposizione dialettica (estetica, lavorativa, morale, o in quanto ex-barbone, ecc) rispetto al mondo contemporaneo. Anche il quartiere in cui vive (con case operaie in mattoni; recinzioni di lamiera con lacerti di manifesti; salotti simil Bauhaus; bar con muri scalcinati e un po’ sbiaditi, arredo povero e geometrico, stock d’alcolici ridotto all’osso e di seconda marca; interni di ospedali quasi da dopoguerra, apparentemente senza macchinari e per nulla riverniciati asetticamente, come fossero ricavati da appartamenti; ferraiole corriere a gasolio) evoca vagamente tutto un mondo da Repubblica Socialista (quello dove la spartana autarchia estetica dà un’impressione di fondo di magazzino e di tarocco tristo) virato però a tinte vivaci, “simpatiche”, da parco giochi: si percepisce insomma, fra quell’orgoglio estetico “da eterni secondi”, un senso di omogeneità, compattezza e solidarietà sociale rivestiti però non di rigore, ordine e serietà ma di vitalità un po’ provata (i colori molto eterogenei ma un po’ sbiaditi), non di ideologia ma di locandine retrò di spettacoli e di manifesti di concerti rock.

Non c’è però solo Marx in Marcel: egli ha tanti numi tutelari, anche nel nome, ma alcuni sono nascosti, aleggiano come spiriti di cui ha come colto l’insegnamento. Ciò fa sì che il suo tratto distintivo -il candore quasi infantile (Arletty lo considera un bambino mai cresciuto; Idrissa, fatta la conoscenza della donna in ospedale, la prega di guarire presto perché crede che “il Sig. Marcel non ce la possa fare senza di lei”)- non sia un’utopistica preservazione di qualità originarie ma sia circonfuso di grandi moralità; che “casualmente” sono anche quelle dei grandi registi amati da Kaurismaki. Questo aggiunge complessità a quel tratto di Marcel: se la sua ingenuità non è quella del folle, non è nemmeno solo una distillazione di conoscenza, ponendosi invece come una riacquisizione di purezza (nel suo caso dopo l’angelico salvataggio di Arletty, in quello di Kaurismaki dopo la frequentazione degli Autori prediletti tramite la cui mediazione ha filtrato e rinserrato l’immaginario del film); il che sfugge al rischio di renderlo un ideale e perfetto feticcio del regista, trasformandolo al contrario – ed è qui la sua importanza capitale nel Cinema di Aki – in figura dello spettatore critico: colui che da adulto e non tornando irrealmente bambino, esposto all’insegnamento di vita di Marcel e a quello morale dei grandi spiriti del Cinema in lui racchiusi, può almeno rammendare le pezze di un ideale di purezza perduta e riattivare la sua morale distratta.

Il percorso di salvataggio defilato di Idrissa compiuto da Marcel, insomma, e il presupposto su cui si fonda la solidarietà nel film sono invero ben poco “marxiani” e assai più memori di Chaplin (il cui spirito riposava già nel titolo del precedente film di Kaurismaki: Le Luci della Sera): la violazione della legalità per preservare l’umanità sconfitta, emarginata e innocente. Marcel è un eterno bambino come Charlot, anche lui è stato vagabondo, e per il loro essere continuamente rigettati dalla Società (Charlot tormentato dai poliziotti, Marcel cacciato dal proprietario di un negozio di scarpe che gli sparpaglia la roba all’appellativo di “Terrorista!”) hanno imparato a mantenere tanto una distanza dalle cose quanto una vicinanza all’Uomo disadattato, che quando è capace di infondere in loro empatia (il Monello nel caso di Charlot, Idrissa in quello di Marcel) li abilita alle prove più grandi di generosità (Marcel devolve senza batter ciglio tutti i suoi risparmi alla causa), di ingegnosità improvvisativa e di elusione delle norme.

Tuttavia il protagonista di Le Havre non ha nulla della sottile perfidia e delle rivalse affibbia-pedate del primo Charlot, della condizione di vittima dell’ultimo, non gioca al ribaltamento non-sense o anticonvenzionale – sempre, però, più polisemico – degli oggetti (comprese le leggi e le istituzioni, considerate appunto solo “cose”) tipico dello Charlot in generale. Marcel “vede” e “fa” di più dell’Uomo-della-Società, proprio come Charlot, certo, ma pur condividendone il candore egli possiede anche una certa saggezza, un controllo, una regalità popolare che sembrano avvicinarlo di più, anche attorialmente, al Chaplin maturo, quello di Luci della Ribalta e di Monsieur Verdoux. Ma d’altronde Calvero e Verdoux erano Charlot, cresciuto e in un certo senso pacificatosi (uno entro la nostalgia, l’altro entro un cinismo rassegnato) nel corpo adulto di Chaplin. Allo stesso modo Marcel è un eterno bambino nel corpo di un uomo, e piega le leggi della Società a suo vantaggio in un modo sì charlotiano, ovvero partendo da reazioni fantasiose o illogiche capaci però di rifondare il contesto secondo una logica dell’assurdo (il colloquio col direttore del centro immigrati, che si smuove a favore di Marcel dopo l’assurda gag “Sono l’albino della famiglia!”), ma come se questo “spirito da comica” si incarnasse e agisse nella figura dell’ultimo Chaplin in qualche modo “convivente” con la società. Tant’è che se non fosse per il patto temporaneo con un suo rappresentante (in)formale -il commissiario Monet- e per la bontà ex machina di costui, tutti gli sforzi di Marcel sarebbero stati vanificati in un attimo.

Kaurismaki, con Marcel Marx, ha concepito un personaggio che può essere descritto da una sola parola: purezza, lo avrete capito. E il Cinema, come ogni arte che cerca di accennare col visibile agli invisibili segreti delle cose, ha il dovere morale di ricercarla, tenerla stretta e farla rilucere. Kaurismaki non si sottrae a questo compito e per rimarcare l’essenza del suo personaggio – ciò che lo separa, rende indipendente e incontaminabile da parte delle sozzure del mondo contemporaneo – esprimendo nel contempo il suo rispetto, la sua ammirazione, simpatia e finanche protezione verso di lui, lascia letteralmente fuori campo tutto ciò che con lui non si intona, che gli è alieno e d’altronde lo rigetta intollerante (il tizio che gli grida “Terrorista!” sbaraccandolo a calci esce da un negozio di scarpe di quelli del centro, dall’aspetto minimalista e la vetrina con due cose in croce in stile gioielleria: cosa c’è di più contemporaneo del glamour estetico che vuol dare l’illusione di esclusività?).

Il Cinema dei grandi Autori è questione di rigore e di coerenza, e per l’appunto la recisione che Kaurismaki opera sulla contemporaneità è totale, in ogni inquadratura, ben più sistematica degli altri suoi film: a parte inevitabili bazzecole come stralci di file d’auto moderne che scorrono sullo sfondo (ma comunque mascherate parcheggiandoci davanti una macchina d’epoca, come nella scena del negozio di scarpe) o i totali su Le Havre dove non si possono mica nascondere tutti gli edifici, la lista del rimosso è impressionante: gli abiti sono vintage o di quella fatta anonima e senza tempo che si vende ancora, in provincia, nei negozi per la quasi mezz’età o per i commercianti di quartiere; gli arredi e le vetture sono pezzi di modernariato; le barche a motore sono quelle semplici in legno usate dai veri marinai; non compare un solo articolo tecnologico (la tv nel bar è a tubo con pochi colori, niente cellulari o schermi piatti LCD, in ospedale non si vede alcunché di computerizzato o digitale); non è inquadrato alcun locale da tempo libero (Marcel fa la spesa “da bottega” e compra spuntini nei chioschi, i bar o sono bettole o di quella normalità funzionale “fuori moda”); al neon si preferiscono le insegne, ai rivestimenti architettonici “di bellezza” le vernici colorate sui muri; il rock di Little Bob, oltre che essere suonato da adulti o vecchietti, è revival anni ’50-’60.

Delle cose visibilmente contemporanee, comunque, ci sono; ma che cose: le divise da corpo speciale con dotazioni d’ordinanza della polizia francese, che approccia il container in cui sono rinchiusi i clandestini stremati come fossero rapinatori barricati dentro una banca e che, non fosse stato per Monet, non avrebbe avuto remore ad applicare il protocollo di sparare su un fuggitivo, anche alla schiena, anche quella di un bambino, con una tecnobestia di mitragliatore automatico; i casermoni di cemento, con spesse grate a prova di sfondamento, del centro raccolta immigrati. Non pare neanche il caso di spiegarla, la visione sociale e politica che sta dietro a questa contrapposizione. Eppure in noi spettatori del Cinema di Aki è sempre in agguato la tendenza a impoltronirci in un’inerzia incantata che si diverte e sorride dinnanzi a tutti i suoi esempi retrò e al buon cuore “di una volta” dei suoi personaggi, come fossero carinerie che agghindano il cinema in base a gusti e valori nostalgici. Però, al di là delle risate suscitate dalle bizzarre figurine (che comunque sono individui che non si omologano), dalle singole battute e gag, è ingiusto compiacersi in sé delle atmosfere vintage e della sequela di sorprese d’altri tempi nei film di Kaurismaki perché “sono un bel mondo che fa stare bene”, poiché ciò equivarrebbe a trasformare lo sguardo del regista, che cerca di resistere e farsi permanente proprio creando atmosfere e sequele, in un tentativo di costruire un museo con parco giochi a tema annesso.

In realtà lo sguardo di Kaurismaki in Le Havre, al fondo, è quello di un uomo talmente stufo della società attuale che si accanisce sugli indifesi (gli assalti dei corpi speciali), limita e imprigiona i loro destini (il centro raccolta), da spazzarla via dalle vicinanze di personaggi che è dovere morale sottrarre alle limitazioni dello stereotipato giudizio altrui e restituire ad inquadrature che gli cuciono addosso il loro mondo, quello che li riflette degnamente e in cui il contemporaneo non merita di entrare. Infatti è come se il Cinema di Kaurismaki, per arrivare più direttamente all’essenza di Marcel Marx, rendendogli così omaggio, si fosse fatto esso stesso “Marcel Marx”. Da buon “Marx”, quindi, spazza sì via la società che esso scredita dalle vicinanze dei personaggi, ma non in generale: la fa irrompere fra loro creando una contrapposizione, e ciò dilegua l’impressione che il mondo rappresentato dal regista sia un’invenzione o un’impenetrabile bolla ideale.

Ad un certo punto, infatti, il posto delle immagini filmiche è preso da quelle di repertorio televisivo sullo sgombero della Jungle di Calais, un “villaggio” abusivo installato nei dintorni boscosi della città. E’ raro che il nostro reale entri così direttamente, come appare davvero, nel Cinema di Kaurismaki; tanto più considerato che tali immagini non sono una simulazione di ripresa tv (che sarebbe sempre “cinema”) ma sono veri filmati d’archivio riguardanti un vero fatto di cronaca. Cio sta a significare che, in ambito circa realista, quanto più in un film l’immaginario di un regista vuol farsi esteticamente compatto, porsi come estromissione della realtà e sostituzione ad essa, “obbligando” a immergersi nella sua individualità, tanto più forte e inducibile, se il regista è davvero grande, dev’essere il suo radicamento nella suddetta realtà. Kaurismaki, in Le Havre, con quell’interpolazione giornalistica addirittura dichiara qual è il nascosto fondamento di realtà del suo film, e lo fa oltretutto in un modo non solo totalizzante (quelle immagini sono visualizzate a tutto schermo, per dire che la realtà è tutto ma anche, con piglio militante, che tutta la realtà è così) ma altresì estensivo e inequivocabile, scegliendo quella tipologia di immagini con cui tutti, anche solo guardando di sfuggita i tg, tendono a “vedere” i problemi del mondo: ciò che fonda questa realtà è la demolizione dei diritti, delle speranze, della possibilità di sentirsi “a casa” e in sostanza delle identità (caso di Chang, quest’ultimo, e non è una coicidenza che sia lui a commentare il servizio al bar, quando la cinepresa restituisce quelle immagini ad una tv nella diegesi) proprio presso coloro che di queste cose avrebbero più bisogno.

Così è per contrasto che Aki, ricostruendo atmosfere e pratiche di regia del passato, costruisce un Cinema esteticamente iperselezionato che nel postmoderno sembra alieno e irreale tanto quanto a lui pare alieno e governato da logiche irreali il mondo. Questo Cinema “Marcel Marx”, proprio come il personaggio, è in’opposizione dialettica nei confronti della realtà; ma in più, rispetto ad esso, cerca anche di instaurare una dialettica: sapendo qual è la realtà, che esso non è la realtà e che questa, per essere compresa, necessita di un termine di paragone opposto, la pellicola stampa all’inverso il mondo, anche cromaticamente: se la realtà (nelle immagini tv, ma anche, secondo Kaurismaki, per davvero) è sporca e sbiadita perché non favorendo la vita la perde, il Cinema, negativi + positivi, ne ricarica il senso e il colore.

E’ proprio per non essere una stampa unicamente a positivi, che Le Havre scongiura il rischio di essere una candida fiaba, conservando invece l’ambiguità che è propria del genere. A fianco di quella che può sembrare speranza c’è sempre una sfiducia di fondo. Una parte di questa ricade quasi addirittura sul Cinema, cui pure è assegnato un così importante ruolo di riequilibrio: se in Le Havre il “cattivo” è Jean-Pierre Leàud, che fu emblema di un cinema “puro” – la Nouvelle Vague – ispirato a tutti gli ideali che si potrebbero desiderare nell’Arte -soggettività, sentimento, sincerità, non costrizione industriale, anticonformismo, nutrimento dalle esperienze personali- questo ammonisce che al Cinema d’oggi, a meno che non sia di formazione documentaristica, non è regalata garanzia di onestà morale, lucidità critica e verità per il suo solo tendere a funzionare come una macchina dei sentimenti. Nel postmoderno, dopo che di ondate, ognuna con i suoi intenti, se ne sono sovrapposte tante, sono necessarie delle scelte di campo all’interno del Cinema stesso. Ecco perché il “citazionismo” di Kaurismaki in Le Havre non è un vezzo, o un’emersione di gusti, ma possiede un valore politico e morale. Leàud è “diventato cattivo” perché in fondo i sentimenti, la sincerità ecc, come tutto ciò che è umano, sono volubili, condizionabili e possono invecchiare male “perdendo pezzi”, ma a ciò si può ovviare racchiudendoli entro un sistema formalizzato dai valori caratteriali ben definiti e immutabili. Come il Cinema Classico.

Questo, in effetti, è ciò che fa Kaurismaki richiamandosi agli altri numi tutelari nascosti nel nome Marcel: Carné, Pagnol, in sostanza il Cinema (pre) Classico francese del Realismo Poetico (che, tra l’altro, insieme al cinèma du papa era ciò da cui volle scostarsi la Nouvelle Vague), cui rimanda anche la moglie di Marcel, Arletty come il nome d’arte di Lèonie Bathiat, diva del periodo nonché protagonista di Alba Tragica di Carné (1939). La realtà di Le Havre non è solo punteggiata da tutti i dettagli topici di quel cinema -il quartiere popolare, il porto (delle Nebbie), la baguette, l’uovo all’occhio di bue per colazione, i bicchieri di calvados – ma è immaginata e animata secondo procedimenti simili, ognuno dei quali conserva il valore formale classico ma nel contempo, molto più che essere solo “kaurismakizzato” (nel senso di “ri-stilizzato” secondo gli inevitabili automatismi delle preferenze e della personalità), viene decontestualizzato e perciò depurato di tutte le nascoste connotazioni “maliarde” del cinema dei divi, facendo riacquisire purezza a quelle visioni e salendo così un altro gradino nel processo di avvicinamento della forma-Le Havre all’essenza del suo personaggio e del suo mondo.

Kaurismaki non è un regista che spinge in avanti la tecnica cinematografica, né si propone di forzare la percezione dello spettatore tramite sorprese rutilanti, costruzioni narrative complicate, estremizzazioni di ogni inquadratura o sequenza. Il “classico”, inteso anche soltanto come “semplicità” ed “economia narrativa” rispetto agli standard odierni, in lui rivive in quanto giusta, unica possibile equivalenza alla semplicità di ciò che rappresenta, e come mezzo per affermare che, in fondo, basta poco (quindi moltissimo, per gli standard odierni) per vedere e comprendere quella realtà.

Ecco perché Kaurismaki, come principale mezzo di contatto fra il suo sguardo e le cose, privilegia le inquadrature frontali, a misura di personaggio o di stanza, che nel Cinema Classico con base realista servivano, uno, a imporre la centralità dell’uomo e delle sue problematiche all’interno delle “nuove storie” di un cinema non più solo attrazione stordente con la novità, con vicende fantastiche o avventure rocambolesche; inoltre affermavano, due, la responsabilità di uno sguardo che si faceva carico di osservare faccia a faccia quelle problematiche. Nello stesso tempo, però, ribadivano anche l’inavvicinabilità del loro mondo tramite divi visualizzati, certo, frontalmente per offrire ai loro atti massima chiarezza e visibilità, ma anche per assicurare alla loro figura tutto il suo splendore e charme, come fossero statue preziose collocate per essere viste in modo plateale appena si entra in una stanza di museo, instaurando con ciò un rapporto di devozione contemplativa. Kaurismaki, da par suo, ha sempre avuto e mantiene interessi umanisti, perché le sue opere sono popolate di proletari, perdenti, gente semplice che dell’umanesimo non sono né una forzatura pietista né un teatrino di “soggetti”, caratterizzazione che rischia di trasformare il Cinema in un recinto reclusivo, doppiamente autoreferenziale; per Aki essi sono un modo per comprendere la realtà, dovrebbero essere la realtà, e non è un’iperbolica posizione “contro”, perché è proprio il suo modo di fare cinema ad affermarlo e confermarlo per tutto il film con le sue “classiche” inquadrature frontali che offrono un rapporto diretto con le cose, quelle che dovrebbero contare e invece sono puntualmente (non) viste in maniera mediata dai mezzi d’informazione e dalla nostra percezione contemporanea, la quale, tanto per chiarire la sua inerzia distorcente, è soppiantata da uno sguardo appunto “non contemporaneo” che induce lo spettatore a sottostare ad altri ritmi.

Il “classicismo” di Le Havre, però, disinnesca completamente la trappola dell’inavvicinabilità come fonte di fascino; il suo umanesimo realista è così radicalizzato che anche i dialoghi, che nel cinema classico avvenivano spesso in campo/controcampo per illuminare la “mistica singolarità” del volto del divo, sono frontalizzati e dimensionati sui corpi: osservare faccia a faccia, per Kaurismaki, implica il farlo con schiettezza, “alla mano” (ripristinando ad esempio le normali e dimesse posture in luogo delle pose), in modo da portare i personaggi sul nostro stesso piano di realtà – proprio perché vorrebbe che fossero la nostra stessa realtà. Vis à vis, inoltre, significa riprendere le azioni e il privato dei personaggi senza coglierli “di lato” o “alle spalle”, senza prospettive strane, perché sono persone che non hanno niente da nascondere, che sono quello che fanno.

Riprendere tutto ciò in modo statico, poi, scegliendo di non ridistribuire continuamente i personaggi nella scena, di non farli muovere con casualità naturalistica, senza frammentare le scene in una miriade di veloci e diversi punti di vista, equivale ad un rifiuto del contemporaneo con la sua velocità e molteplicità di dati, di prospettive, ed è un tener fede alla volontà rispettosa di non scompaginare la saldezza dei personaggi, di non ribaltare le loro relazioni, che sono schiette, dirette e “lineari” tanto quanto la frontalità con cui li si guarda e quanto la loro alleanza, che non è un temporaneo intrigo che bilancia incertezze e debolezze, ma è semplicemente un naturale “atto giusto”. In linea con quella volontà rispettosa, la macchina da presa di Kaurismaki non si abbandona alle ipercineticità attuali ma rimanda a quella classica che si muoveva parcamente in funzione narrativa per seguire gli attori: anche quando partono le carrellate in avanti “da entrata in scena del divo” – l’apparizione di Mimì, la guarigione di Arletty- questo avviene sempre per sottolineare l’apotheosis – come il brano di Einojuhani Rautavaara in sottofondo- di un sentimento dei personaggi. Non vediamo, dunque, la camera immischiarsi sfrontata tra essi o mettersi a gironzolare, come per non profanare la purezza dei loro spazi e non “muovere polvere” inutilmente all’interno di un ordine strappato a fatica alla modernità.

Anche un altro “kaurismakismo” -la fissità o compostezza dei personaggi all’interno del posto loro assegnato dalla messinscena- è conseguenza coerente della vivificazione di uno spirito compositivo classico: quello che, in media, assegnava ad ogni inquadratura una porzione definita di spazio da scoprire, un’azione e una posizione significativa ai personaggi, e quando passava ad un’altra inquadratura evitava i salti bruschi (come dalla figura intera al primo piano) per fluidificare un’arte narrativa che per la prima volta usava in modo massiccio la scomposizione spaziale, possibile freno irrealistico. Questa linea guida “esterna” conviveva con una “interna”, ovvero dei formati compositivi stabili, ricorrenti in ogni sequenza come rime rinserranti, e tale convivenza assicurava compattezza estetica: personaggi che occupavano 2/3 dello spazio, oppure 1/3 ciascuno se erano entrambi presenti, e che in Le Havre sono di frequente scalati, affiancati o raggruppati, sempre in modi che comunque, uniti alla sopressione di un gesticolare che invaderebbe lo spazio altrui, sono un riconoscimento della loro vicinanza, mantenendo nel contempo la loro identità individuale saldamente radicata; campi medi o totali preferenziali, in cui le figure – intere, mezze o in piano americano – erano disposte centrate oppure ai margini del quadro senza troppo spazio né dietro né davanti.

Tutto questo sistema formalizzato aveva perciò buon gioco, grazie al suo ordine, alla sua definitezza e alla sua coerenza, ad alludere ad un altro sistema, ovvero quello del carattere del personaggio così com’era concepito dalla sceneggiatura classica: un ruolo preciso, un’entità costante mossa sempre da alcuni principi riconoscibili, in modo da favorire l’identificazione o il rifiuto, e di cui ogni gesto, postura, abito, intonazione, ecc, doveva essere specchio. Aki adatta pienamente a sé questo sistema, a partire dalla foggia dei personaggi: ben più che costanti e riconoscibili, perché come nei fumetti, Marcel e gli altri sono vestiti sempre allo stesso modo, sfoderando un’indistruttibilità estetica che è specchio di quella morale, in un’epoca di mode continue, voltagabbana e volubilità della percezione delle problematiche sociali. L’abito è il modo più appariscente con cui Kaurismaki visualizza la purezza di questi personaggi, o il suo contrario: Leàud si riconosce subito come “cattivo” per il suo aspetto pallido, gobbo, nascosto nell’impermeabile, i movimenti macchinosi, i capelli color ratto e la voce raspa. E quando l’aspetto pare neutro, come l’attillato completo nero di Monet, che lo fa sembrare una di quelle sagome di investigatori-ombra delle striscie a fumetti che si mimetizzano nello scuro dei lampioni, nero che gli oscura l’umanità, lo assottiglia in mezzo alla gente (che non stima) e lo mimetizza nell’Autorità (le divise della polizia, la stanza ombrosa del questore), ecco che spunta fuori un dettaglio ad accennarne la vera indole vispa (la gag dell’ananas). E’ coerente, perciò, che quando Marcel e Arletty cambino d’abito (l’unico altro paio presente nell’armadio) ciò corrisponda ad un sovrappiù di grazia: l’uno per intraprendere il suo viaggio a fin di bene, e l’altra non appena guarita, indossando il vestito colorato con cui in gioventù incontrò Marcel e “lo salvò”. Gioventù come il periodo della purezza, come quello in cui s’iniziano a leggere i fumetti.

Se, poi, il Cinema questa purezza ha il dovere di scovarla, tenerla stretta e farla rilucere, e il primo di questi doveri è svolto in Le Havre prima di tutto dalle foggie immutabili, a badare al secondo ci pensa la spazialità: la costruzione degli ambienti, spesso in campo totale o medio, dove i personaggi non risultano rimpiccioliti e prevalgono sulla totalità dello sfondo, è come se rispondesse ad un bisogno di contatto, di adesione, ad un dovere di farli aderire agli sfondi che li rappresentano in modo identitario e non disperderli nella caoticità figurativa di una realtà che li emargina. Il compito di “farli rilucere”, invece, è assegnato ad un altro procedimento vecchio stile, ovvero l’illuminazione contrastata dei volti e dei contorni, a spicchi di luce (controluce classico) o a chiazze (low-key lighting, chiaroscuro drammatico “da noir“), da cui però Kaurismaki rimuove il “lato oscuro”: l’allusione ai contrasti del carattere, ai tormenti, alle torbide volubilità, all’erotismo preso tra angelico e carnale, che il Cinema Classico non accettava fossero espliciti ma relegava ad alcuni dettagli (le luci, le sigarette, le pistole, i rossetti). Per Aki, invece, che dona ai suoi personaggi l’amore romantico e un carattere non volubile, la “luce dei divi” (Marcel e Arletty in macchina verso l’ospedale, o quando guardano il ciliegio, l’apparizione di Mimì) è casomai un modo per far diva la normalità dei suoi personaggi.
Il Cinema Classico di Le Havre, in sostanza, che si fa “Marcel” (Carné, Pagnol) in onore del suo protagonista, in quanto Realismo Poetico è una sorta di retribuzione nei confronti dei personaggi, una giustizia poetica che li rappresenta adeguatamente e regala loro ciò che il mondo toglie ogni giorno alle loro controparti reali.

C’è tuttavia un elemento della messinscena -l’andamento compassato, al limite dello straniamento, di gesti e dialoghi- che Kaurismaki esaspera, in opposizione alla visione fluida e da macchina dei sogni del Cinema Classico. La sua tipica recitazione anti-naturalistica è fatta di piccole attese e ritardi che denunciano una sorta di sospettosità verso la realtà e di arrugginimento nell’agire in essa, è un’impossibilità di comportarsi con naturalezza facendo finta che “là fuori (campo)” tutto vada bene; è quasi, in modo brechtiano, una traccia di consapevolezza da parte dei personaggi di essere tali, di essere immersi in una metafisica fumettistica (come la locandina che vedete a inizio articolo).

Forse, dunque, è per questa consapevolezza dolorosa, probabilmente la stessa che sta alla base dell’esilio fuori campo della contemporaneità, che Kaurismaki ha sentito il bisogno di bilanciare, alleviare certi dettagli irrealistici comprendendoli entro una forma di Realismo non più solo Poetico ma Magico, come quello di Kafka dei Racconti, letti ad Arletty in ospedale dalle amiche di quartiere per farla riposare. Per Kafka quel modo di raccontare era anch’esso una retribuzione, che trasfigurava in una pace fantasiosa la realtà altrimenti sempre minacciata dal Potere, dall’Autorità che come nel Castello non hanno volto (e anche in Le Havre, quando Monet entra nel Loro palazzo, contiguo ad una Chiesa davanti a cui degli ecclesiastici fanno un’esegesi delle quisquilie, chi gli dà ordini non si vede, è solo una voce) e sono capaci di far sentire vittima colpevole l’uomo per il loro solo esistere. Probabilmente, allora, è per questo che Aki ha immerso i suoi personaggi in quadri che paiono vignette della bande dessinée, cioè del fumetto (francese), regno della fantasia.

Se all’orgine e nel sottofondo di Le Havre c’è una consapevolezza dolorosa, anche l’immagine trionfante della Magia – il ciliegio in fiore – germina con ambiguità: magari, certo, è il definitivo correlativo oggettivo della purezza di Marcel e Arletty; è anche possibile che sia un omaggio a Ozu, a Mizoguchi, alla loro capacità di cogliere la grandezza e piccolezza dell’uomo, osservandolo con saldezza, pazienza e pacatezza in rapporto al fluire della natura e del reale; oppure possiamo considerarlo il terzo lieto fine, ultimo germoglio del dovere compensatorio che ha guidato la messinscena: “Tutto l’affare dei profughi -dice Kaurismaki- è qualcosa di veramente deprimente con troppi finali tristi nella vita reale, così un’opera di fiction che tratta questo tema ha bisogno di almeno due lieto fine per creare una sorta di bilanciamento”. Eppure, per il suo essere fuori posto e fuori tempo, può essere semplicemente l’eccesso favolesco che, proprio per questo, ci ricorda che siamo semplicemente stati spettatori di una fantasia.

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